Quanti di noi pensano che la vita consista in quegli anni – pochi o molti – che trascorriamo sulla terra! E quindi ci si affanna per raggiungere chissà quale meta, per avere e possedere sempre di più, per farsi largo – spesso a discapito degli altri – in vista di far carriera o bella figura, non si è mai contenti di ciò che si ha, ci si attacca alle proprie idee e alle proprie cose, come se gli altri non esistessero, si litiga per un nonnulla creando divisioni, odi, ferite, conflitti, lacerazioni, guerre… a partire dalle famiglie, dai posti di lavoro. Ma è proprio questo il senso della vita? Viviamo davvero per lottare con il vento?
Il mese di novembre ci ricorda, o ci impone il ricordo, della fugacità della vita terrena. La meta è la stessa per tutti, nessuno escluso! Prima o poi la morte raggiunge tutti, qualunque sia lo stato di vita e la condizione sociale. Esprime bene questa certezza una poesia del famoso Totò: La livella. Ho pensato di proporla alla riflessione, scegliendo degli stralci e optando per la traduzione in italiano.
«Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti di andare al Cimitero.
Ognuno deve fare quest’atto di devozione; tutti devono avere questo pensiero.
Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza, anch’io ci vado, e con dei fiori adorno il loculo […]
Quest’anno m’è capitata un’avventura… […] Il fatto è questo, statemi a sentire: s’avvicinava l’ora della chiusura: io, piano piano, stavo per uscire, gettando lo sguardo su qualche sepoltura.
“Qui dorme in pace il nobile marchese […]”. Lo stemma con la corona sopra a tutto… …sotto una croce fatta di lampadine; tre mazzi di rose con una lista ‘e lutto: candele, candelotti e sei lumini.
Proprio attaccata alla tomba di questo signore c’era un’altra tomba piccoletta, abbandonata, senza neanche un fiore; per segno, solamente una crocetta.
Questa è la vita! Fra di me pensavo… chi ha avuto tanto e chi non ha niente!
Mentre fantasticavo su questo pensiero, s’era già fatta quasi mezzanotte, e io rimasi chiuso, prigioniero,
morto di paura… avanti ai candelotti.
Tutto a un tratto, che vedo da lontano?
Due ombre avvicinarsi dalla parte mia…
Pensai: questo fatto mi pare strano…
Sto sveglio… dormo, o è fantasia?
Altro che fantasia; era il Marchese: con la tuba, la caramella e con il pastrano; quell’altro dietro a lui un brutto arnese; tutto sporco e con una scopa in mano.
E quello certamente […] il morto poverello… lo spazzino. In questo fatto io non ci vedo chiaro: sono morti e si ritirano a quest’ora?
Potevano starmi quasi a un palmo,
quando il Marchese si fermò di botto, si girò e serio serio… calmo calmo, disse a don Gennaro: “Giovanotto! Da Voi vorrei saper, […]
con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, sì, rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava, sì, inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza […] che cerchiate un fosso tra i vostri pari, tra la vostra gente”.
“Signor Marchese, non è colpa mia, io non vi avrei fatto questo torto; è stata mia moglie […] io che potevo fare se ero morto?
Se fossi vivo vi farei contento, prenderei la cassettina con le quattro ossa e proprio adesso, in questo momento, me n’entrerei in un’altra fossa”.
“E cosa aspetti, […]?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!”
“Fammi vedere… pigliala questa violenza…
In verità, Marchese, mi sono seccato di sentirti; e, se perdo la pazienza, mi dimentico che son morto e volano le botte!…
Ma chi ti credi d’essere… […]
Vuoi capire che qua dentro siamo uguali?…
…Morto sei tu e morto sono anch’io; ciascuno di noi è proprio tale e quale”.
“[…] Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?”.
“[…] Ti vuoi mettere in testa… in quel cervello… che sei malato ancora di fantasia?…
La morte sai cos’è?… è una livella.
Un re, un magistrato, un grand’uomo, varcando questo cancello, ha messo il punto, perché ha perso tutto, la vita e anche il nome:
ti sei o non ti sei reso conto di questo?
Perciò, stammi a sentire… non fare il riluttante, sopportami vicino – che t’importa?
Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri… apparteniamo alla morte!”».
Vorrei concludere con la realtà che supera anche la morte, perché essa non è l’ultima parola. Gesù ha detto di sé “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11, 25). La vita, anche quella terrena, è Gesù, è vivere secondo il suo messaggio e i suoi insegnamenti. Solo così camminiamo verso la vera e definitiva meta, il Cielo. Cerchiamo quindi di trasformare le ultime righe della poesia: non facciamo pagliacciate, per prepararci a morire, cioè ad entrare nella Vita eterna, insieme a tutti i nostri cari che ci hanno preceduto e ci attendono!