Nella foto: Thomas Raiser, collaboratore pastorale da vent’anni. Il lavoro come insegnante di Realschule, Haupschule e Sonderschule lo ha portato anni fa in contatto con famiglie italiane e sedici anni fa ha cominciato a lavorare per la Comunità italiana di Fellbach. Invitato in Calabria per la prima volta 2000, si è innamorato della regione che ora conosce come le sue tasche. Ha pubblicato alcuni libri, in tedesco, sulla Calabria. http://silagreca.de/

Intervista a Thomas Raiser, collaboratore pastorale della Zona Sud (Diocesi di Rottenburg-Stuttgart)

Il rapporto fra le Comunità d’altra madre lingua e la chiesa locale è di attualità e lo sarà nei prossimi anni, e non solo perché le diocesi tedesche stanno ridisegnando l’assetto territoriale delle parrocchie, ma anche per le sfide che le mutate condizioni sociali, ossia integrazione nella società tedesca, maggiore mobilità delle persone (si veda il punto 8 dell’Istruzione vaticana sulla conversione pastorale), la nuova migrazione, impongono anche alla pastorale delle Comunità d’altra madre lingua.

La diocesi di Rottenburg-Stuttgart sta svolgendo una valutazione (Evaluation) delle direttive del 2006 (Richtlinien) delle comunità di altra madre lingua, lavoro che si chiuderà il prossimo febbraio e che comprende anche un sondaggio (chiuso il 24 novembre, https://www.kh-freiburg.de/kgam ) rivolto a tutti i membri delle Comunità. Nell’ambito di questo processo di valutazione i rappresentanti delle comunità italiane della diocesi (Zona sud della Delegazione), fra cui il coordinatore don Joseph Ambasseril, il vice coordinatore don Désiré Matand, il referente pastorale Thomas Raiser, la referente di comunità Maria Angela Mariano hanno stilato un documento “Non solo Richtlinien, ma anche Leitlinien” (Non solo direttive ma anche linee guida) che mette in luce i punti critici delle attuali direttive, ossia del modello di pastorale per le comunità italiane di altra madrelingua.

Questo documento verrà portato a conoscenza nella conferenza del dipartimento pastorale della diocesi che l’anno prossimo concluderà la valutazione delle direttive della pastorale delle Comunità d’altra madre lingua. “Vogliamo collaborare a questo fin dall’inizio e non discutere le cose alla fine” ha detto Thomas Raiser. Nell’ultimo Convegno di zona il 9 novembre scorso le comunità italiane della diocesi di Rottenburg-Stuttgart hanno approvato all’unanimità il documento “Non solo direttive, ma anche linee guida”. Ne parliamo con Thomas Raiser.

Quali sono i punti critici delle Richtlinien che il vostro documento mette in luce?
Le Richtlinien Katholischer Gemeinden anderer Muttersprache, in vigore dal 2006, regolano l’organizzazione giuridica e amministrativa delle comunità ma parlano anche di “Communio” (comunità, convivenza, comunione) nel tentativo di mettere insieme la parte giuridica e la parte teologico-pastorale. La parte giuridica è tuttavia preponderante, quella pastorale e teologica è scarna, perché non risponde ad alcune domande fondamentali, per esempio “Come essere chiesa in questo contesto?”. Per noi l’idea della Communio deve avere maggior valore perché sta alla base della collaborazione con la chiesa locale. Nelle direttive si sente fortemente il timore che le comunità vivano una realtà parallela e che questo aspetto dell’identità possa superare quello della collaborazione. E questa preoccupazione è troppo forte in questo documento.

Perché ve ne accorgete quindici anni dopo?
In primo luogo perché parecchi progetti contenuti in queste Richtlinien non sono mai stati realizzati e in secondo luogo perché la migrazione di oggi richiede altre risposte rispetto al passato. Il punto critico è quello che regola l’appartenenza alla comunità e qui ci sono tre problemi: 1) a una comunità appartengono solo i cattolici italiani che vivono nella zona dell’unità pastorale; quelli che appartengono ad altre unità pastorali non possono appartenere a questa comunità anche se non hanno una propria comunità. Vengono da noi ma noi non abbiamo né il personale né i soldi e spesso sono di più di quelli che fanno parte della comunità. Per esempio a Waiblingen ci sono 1.800 italiani nell’unità pastorale; nell’Einzugsbgebiet sono forse 3-4 mila italiani che non hanno una comunità a cui appartengono. È un problema. Da sempre abbiamo chiesto una soluzione invece la diocesi risponde sempre con aspetti giuridici e di strutture territoriali. Noi, ovviamente li abbiamo accolti, non mandiamo via nessuno e neanche siamo veramente sovraccarichi. Il problema è proprio che questo sentimento di accoglienza trova un ostacolo in questa definizione di appartenenza. 2) Se un italiano poi acquista la cittadinanza tedesca non appartenere più alla comunità italiana. 3) I bambini e giovani non contano nelle comunità perché vengono considerati come tedeschi dalla chiesa come pure dallo Stato e non italiani. Così perdiamo quasi tutti i bambini e giovani con meno di 18 anni. Queste Richtlinien impediscono un’autentica Communio come sarebbe invece nell’intenzione originale.

Ci vorrebbe una struttura più flessibile?
Secondo me ci vuole una soluzione di opzione: se qualcuno anche nell’ultimo angolo della diocesi decidesse di partecipare a una comunità italiana dovrebbe averne il diritto. Secondo me l’integrazione che continua richiede una soluzione più aperta più flessibile, invece la diocesi ancora ci costringe un po’ in una struttura di una volta.

Nel vostro documento “Non solo Richtlinien ma anche Leitlinien” si legge che “i migranti non sono da educare, hanno diritto a tante cose senza permesso speciale”. A che cosa vi riferite?
Faccio un esempio calzante, quello dei sussidi per i progetti dei giovani nelle comunità. L’ufficio dei giovani della diocesi ha stabilito, e questo si trova nelle Richtlinien, che si dà un sussidio finanziario solamente se a un progetto partecipano almeno due nazionalità: croati e italiani, italiani e tedeschi eccetera. Se gli italiani vogliono realizzare un progetto solo con italiani non hanno diritto di ricevere un supporto finanziario. Ora qui c’è un’intenzione educativa perché si dà da intendere che non devono parlare solo italiano fra di loro. E ciò non è “auf Augenhöhe” da pari a pari, ma è colonialismo, secondo me.

La diocesi di Rottenbug-Stuttgart quindici anni fa aveva intrapreso un percorso di inserimento delle comunità cattoliche d’altra madre lingua all’interno di unità pastorali con le parrocchie tedesche. Fra il 2004 e 2005 sono state sospese le missioni e un anno dopo sono state erette le comunità. Com’era nato questo modello, unico in tutte le diocesi tedesche?
Dietro il cambiamento dalla missione alle comunità c’è stata l’intenzione di avvicinare le comunità italiane alle parrocchie, perché nel processo di integrazione degli italiani nella società tedesca spesso le famiglie italiane si sono sempre di più avvicinate alle parrocchie dove abitano. La struttura della missione era centralizzata. Si è sentito quindi il bisogno di strutture della pastorale che rispondessero all’esigenza di dare un ambiente alle famiglie italiane e allo stesso tempo dare una risposta alla ristrutturazione della pastorale della diocesi. Si è sviluppato così un rapporto speciale fra la parrocchia e la cosiddetta Belegenheitsgemeinde (Comunità locale) che raccoglie appunto le Comunità d’altra madre lingua. Ci sono delle collaborazioni fra la Belegenheitsgemeinde e le parrocchie, per esempio, per il Corpus Domini, poi con delle messe internazionali durante l’anno, qualche festa patronale, sono punti di riferimento che funzionano bene. Le comunità d’altre madre lingua fanno parte inoltre del Gemeinsamer Ausschuss (Comitato misto) che raccoglie i rappresentanti di tutte le parrocchie e di tutte le comunità dell’unità pastorale. Nel Gemeinsamer Aussschuss le comunità hanno gli stessi diritti delle parrocchie e, dove funziona bene, la collaborazione ne approfitta tanto.

A quindici anni di unità pastorali a parte i correttivi che proponete con il documento “Non solo direttive”, che bilancio si può fare?
Intanto che non abbiamo perso tante persone nel passaggio dalle missioni alle comunità. Noi tutti, collaboratori e collaboratrici, più o meno 35 persone, siamo abbastanza soddisfatti perché abbiamo molta libertà nella nostra pastorale, abbiamo meno lavoro di amministrazione perché lo sbrigano le parrocchie e disponiamo di sufficienti risorse finanziarie. Anche per gli spazi si trova sempre una soluzione perché abbiamo a disposizione quasi tutti i locali dell’unità pastorale.

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