Convegno Laici 2023 “Allarga lo spazio della tua tenda” sulla sinodalità e i prossimi convegni 2024 e 2025
Il Convegno laici tenutosi a Stoccarda il 1° e 2 luglio per modalità e tematica è da considerarsi una novità. Una novità recepita positivamente dai partecipanti, non numerosissimi. In che cosa consistono le novità: nel tema sinodalità e nel metodo induttivo che, senza azzardo, si può dire essere stato un tentativo di pratica sinodale. La Chiesa cattolica sta percorrendo un cammino sinodale, iniziato nell’ottobre 2021, e che nel prossimo ottobre vivrà la tappa della prima assemblea generale dei vescovi. Ma tutte le chiese locali sono chiamate alla sinodalità, che è la dimensione costitutiva dell’essere Chiesa, in forza del battesimo, per una conversione, un rinnovamento nella Chiesa stessa. L’ecclesia nello stile sinodale significa comunione, partecipazione e missione. Ma che cosa significano queste tre parole? Come le viviamo, le incarniamo, le riempiamo di significato, nelle comunità ecclesiali si cui facciamo parte?
Da queste premesse il convegno ha preso inizio con un momento di preghiera (Sonia Cussigh) rivolta allo spirito santo, ed è proseguito con la presentazione del sinodo, di che cosa significa essere popolo di Dio (Paola Colombo), a cui hanno fatto seguito degli impulsi, riflessioni su comunione, partecipazione e missione, affidati rispettivamente a Samuel Benedetto Alba (Calw), Sonia Cussigh (Stoccarda) e don Jean Bonane (Leonberg). Volutamente hanno evitato di fare delle relazioni preferendo lo stile dell’impulso (Impulsreferat) per favorire nei presenti l’attitudine all’ascolto, non passivo e univocamente ricettivo, come stimolo a una riflessione e al pensamento della propria realtà di comunità ecclesiale. I tre impulsreferat sono stati diversi anche nel modo di essere presentati: S.B. Alba ha attinto il senso di essere comunione della ecclesia, direttamente dalle fonti, dalle Scritture; S. Cussigh ha declinato il tema partecipazione con la vita della sua comunità, rilevandone aspetti positivi e deficitari; partendo dalla figura missionario, J. Bonane in dialogo con i presenti è arrivato a mostrare che la missione, l’essere inviati, è fondamento dell’essere cristiano, ne è la sua dimensione teologica. A questi tre momenti sono seguiti i “lavori di gruppo”: i partecipanti divisi in tre gruppi hanno elaborato le tre categorie, comunione, partecipazione e missione in relazione al vissuto nella propria comunità.
Gli esiti dello scambio all’interno del gruppo sono stati poi portati in plenum a tutta l’assemblea da tre portavoce del gruppo. Ne è seguito un vivace e stimolante riscontro. I partecipanti al convegno, si desidera ora fare una sottolineatura, era uno spaccato del popolo di Dio, ossia del corpo ecclesiale, della chiesa: laiche e laici e alcune religiose e presbiteri.
Fra i presenti c’era il relatore a cui era stata affidata per il giorno successivo il lavoro di mettere insieme quanto è risultato dalla prima giornata del Convegno. Il relatore è stato Antonio Autiero, teologo morale e professore emerito a Münster e Bonn. Il professor Autiero non ha fatto una sintesi, ha riportato quanto ascoltato il giorno precedente inserendolo in un quadro più ampio, ossia che cosa è emerso, che cosa non è emerso ma è stato presente come presupposto, premessa dei lavori, inserendo il tutto in un quadro di riferimento che è la sinodalità della Chiesa.
La sua esposizione è stata molto apprezzata da tutti, anche da chi è digiuno di tematiche teologiche, per la sua grande competenza comunicativa ed empatica. Tutto il convegno è stato molto apprezzato certamente anche per la modalità come dicevamo all’inizio, induttiva delle giornate, partire dal vissuto, dalla realtà di comunità e di appartenente alla comunità ecclesiale, favorendo in questo modo il dialogo, il coinvolgimento, la presa sul serio della realtà che si vive nella Chiesa, ossia è rilevante per essere ecclesia, e quindi anche la riflessione sulla propria realtà, per comprenderla nell’orizzonte dell’orizzonte sinodale della Chiesa.
Non è una operazione di marketing. Non è un evento per rilanciare l’immagine della Chiesa. Il sinodo non è nulla di tutto questo. Il sinodo sulla sinodalità in corso dal 2021 non è un’operazione dal debole profilo teologico. A papa Francesco a volte viene contestato dai suoi detrattori di non appoggiarsi a un poderoso impianto teologico. Invece il sinodo sulla sinodalità che il prossimo ottobre entra nella fase universale ha le sue radici nell’ecclesiologia, ossia nell’idea di Chiesa, uscita dal Concilio Vaticano II, ancora ben lontana dall’essere del tutto praticata. Si tratta di una ecclesiologia che si fonda sulla dignità battesimale di tutti i credenti, sul popolo di Dio come corpo ecclesiale (della ecclesia, della chiesa), superando in questo modo la spartizione fra chiesa docens, che insegna, ossia il clero, e una chiesa discens, che impara. Sappiamo le difficoltà di ricezione del Vaticano II nei decenni successivi e, come abbiamo avuto modo di scrivere su queste pagine, il pontificato di Francesco, rimette in moto il Concilio Vaticano II alla luce dello sviluppo della riflessione teologica sulla Chiesa. Il sinodo in corso va visto allora in questo ampio orizzonte di rinnovamento della Chiesa a cui tutte e tutti i battezzati sono chiamati. Non è quindi un evento ma è un processo in atto, il sinodo come ha detto il professo Autiero è “qualcosa che ci insegni a non mettere la parola fine”.
Nel convegno laici tenutosi a Stoccarda all’inizio di luglio abbiamo riflettuto, discusso su tutto questo. La relazione finale orale del teologo morale Antonio Autiero, professore emerito a Münster, ci ha aiutato a comprendere queste linee guida del sinodo; con lo stesso intento di offrire comprensione, la sua relazione viene riproposta qui in versione scritta e in ampia sintesi, redatta da Paola Colombo.
Ricostruzioni
A volte per comprendere dove siamo, dobbiamo partire da lontano, da una breve storia della vicenda cristiana che gli studi di sviluppo delle dottrine teologiche ci stanno mostrando (per esempio in Italia, Romano Penna, neotestamentarista, e Martin Ebner in Germania anche lui neotestamentarista, ma non solo loro). Da questi studi emergono due indicatori: la sacerdotalizzazione e la monacalizzazione del cristianesimo, dopo le esperienze delle prime comunità cristiane; questi due fenomeni hanno prodotto una storia degli effetti con la quale dobbiamo saperci confrontare. In generale abbiamo preso l’ideale del monaco come ideale del vero cristiano. Questo lo abbiamo applicato alla figura del sacerdote, ma ha influito anche sull’idea del fedele: il vero credente era il vergine, era l’obbediente, era il povero. Queste due chiavi di lettura: sacerdotalizzione e monacalizzazione stanno insieme e ci aiutano a comprendere da quale tipo di cristianesimo, di liturgia, di chiesa noi proveniamo e come il Concilio Vaticano II sia stato una leva di rinnovamento, non la sola peraltro, che ha mostrato quali conseguenze ha generato la monacalizzazione del cristianesimo e abbia tentato di dare una svolta. Ed è su queste premesse che devono essere capite l’idea e la finalità del sinodo.
Conseguenze
Una prima conseguenza della sacerdotalizzazione e monacalizzazione del cristianesimo è l’enfasi sul sacro. Sacro vuol dire sempre separato, sottratto alla collettività delle cose normali, quotidiane, per essere rinchiuso in uno spazio proprio. L’amplificazione del sacro fa sì che la sfera del mondano (di ciò che è del mondo e quindi anche le nostre vite), venga subordinata ad esso. In questo modo si sottrae significato alla storia, alla nostra vita, alla vita dei credenti, perché è il sacro, l’altro, situato anche in un altro temporale, a essere importante. Invece Gaudium et spes (una delle costituzioni del Vaticano II) dice che occorre pensare a una Chiesa che non sia separata dal mondo, meno che mai sopra del mondo, ma a una Chiesa che stia nel mondo.
Una seconda conseguenza della sacerdotalizzazione e monacalizzazione del cristianesimo ha a che fare con la riduzione del soggetto ecclesiale a un organismo gerarchico in senso piramidale con la definizione giuridica di compiti, di ruoli e di autorità. Ancora il Vaticano II con Lumen Gentium, ribalta questa impostazione: il soggetto ecclesiale ha domandato di essere ripensato, emerge la Chiesa come popolo di Dio. Abbiamo tolto le balaustre dalle chiese, espressione plastica di separatezza, conseguenza di un corpo ecclesiale sacerdotalizzato e sacralizzato, ma le balaustre mentali ci sono ancora perché abbiamo ancora una liturgia di separatezza. E la liturgia è infatti la cartina di tornasole di come siamo come Chiesa. Il soggetto ecclesiale si esprime attraverso la liturgia, lex orandi, la legge di chi prega che ha a che fare con la legge di chi crede, lex credendi e alla lex vivendi, a quello che vivo. Le posture del corpo dicono quello a cui crediamo. E attraverso il nostro corpo esprimiamo ancora una liturgia di separatezza fra clero e fedeli. Il discorso sulla liturgia è complesso ma fondamentale e chiama in causa la catechesi perché è difficile entrare in un rito liturgico per capirne la sostanza.
Un’altra conseguenza – la terza – ha a che fare con l’esercizio di autorità, con il potere di un ufficio e si distingue in potestas ordinis e potestas iurisdictionis, come ci insegna il pensiero teologico e diritto canonico. La prima ha a che fare con il ministero ordinato nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato e diaconato; la seconda con l’amministrazione, l’organizzazione pratica perché la chiesa è una collettività di persone e di soggetti individuali che, per diventare un soggetto collettivo, necessita di organizzazione, va governata altrimenti siamo masse indomabili, aggregazioni disordinate. Ora, l’esercizio di autorità in una chiesa dove il corpo ecclesiale è separato, sacralizzato, sacerdotalizzato, monacalizzato, l’autorità rischia di coincidere con il potere di chi ha ricevuto l’ordine anche in questioni di carattere amministrativo e pratico. Questa mancanza di bilanciamento tra poteri finisce per creare delle false forme di arroganza dell’autorità. Qui la questione è estremamente complicata e complessa, ma è necessario mettere mano a questa questione.
Quarta conseguenza. A chi compete l’ufficio di insegnare e insegnare che cosa? Nella liturgia di separatezza, nell’ecclesiologia sacralizzata, è facile dare una risposta perché opera la distinzione fra ecclesia docens et ecclesia discens. Ci sono miliardi di persone che imparano e poche decine che insegnano, si tratta di un equilibrio instabile. Ma la base dell’appartenenza alla Chiesa è il battesimo; nel battesimo c’è una unità che mette in circuito coloro che esercitano un ministero ordinato e coloro che non esercitano un ministero ordinato. Negli anni ’80 un teologo tedesco Karl Rahner, ma non era il solo a pensare in questo modo, si pensi anche alla nouvelle théologie de l’école de Paris (la teologia del rinnovamento dei domenicani, l’ultimo “monumento” di questa teologia è padre Hervé Legrand, cfr. CdI febbraio 2022) ci indicano che siamo tutti sotto il primato della Parola e l’autorità a insegnare nasce dall’appartenenza al corpo ecclesiale. Che cosa significa riconoscere autorità di insegnamento ai credenti? Questo non significa non avere maestri e che dobbiamo farci tutti maestri ma che siamo tutti uditori della Parola. E qui ricorre di nuovo il Vaticano II e la costituzione Dei Verbum.
Il Concilio vaticano II ha prodotto 16 documenti, di cui quattro sono le costituzioni, come le carte costituenti della Chiesa. Ma la prima costituzione è la Dei Verbum perché la parola di Dio soggiace a tutto e ci dà la chiave di lettura per entrare in modo diverso nella comprensione della natura della Chiesa (Lumen Gentium), della liturgia (Sacrosanctum Concilium) e del rapporto con il mondo (Gaudium et Spes).
Comunione, partecipazione e missione
Abbiamo considerato l’orizzonte ecclesiologico in cui va visto l’attuale sinodo e le sue finalità. La parola sinodalità non ricorre nei documenti del Vaticano II. Vero. L’ecclesiologia è andata avanti anche dopo il Concilio nello spirito del Concilio. La sinodalità esprime lo stile della Chiesa e del suo rinnovamento: camminare insieme. Questo è il significato di sinodo dal greco σύν “con, insieme” e ὁδός “via”. La sinodalità non è un attributo intercambiabile o sostituibile a piacimento, ma è la dimensione costitutiva della Chiesa, cioè, ha a che fare con la natura stessa della Chiesa. Tre sono le parole che declinano il significato di sinodalità: comunione, partecipazione e missione. Parole che ben conosciamo o che pensiamo di conoscere a fondo. Alla luce di tutto quanto detto sopra queste tre parole acquistano uno spessore che a prima vista non si nota. Vediamole più da vicino (PC).
Per capire queste tre parole occorre tener presente il quadro di riferimento fatto sopra. Comunione, partecipazione e missione ricorrono sin dalla preparazione del sinodo e hanno forgiato l’Instrumentum laboris, il testo che deve accompagnare i due tempi del sinodo nella fase universale (ottobre 2023 e ottobre 2024).
Le tre parole si possono leggere in due modi: uno, come una delineazione dell’indole individuale, una sorta di profilo religioso individuale di ogni credente, aperto alla comunione, che deve portare la sua parte di responsabilità (partecipazione), che deve annunciare, testimoniare (missione). Questa lettura centrata sull’individuo credente avrebbe il vantaggio di mettere in movimento delle risorse interiori per il rinnovamento. Ma ciò non basta. Il sinodo non vuole primariamente essere una lezione di teologia spirituale. Con le tre parole la Chiesa esprime la consapevolezza che ecclesia semper reformanda (est), ce lo dice la teologia della tradizione ecclesiastica, e le tre parole sono le linee portanti di un disegno ecclesiologico iniziale e continuamente da verificare e rinnovare. L’enfatizzazione dell’impatto individuale in riferimento alle tre parole non è sufficiente per comprendere la sinodalità.
Comunione
La comunione riporta la Chiesa alle sue caratteristiche di comunità. Gesù ha fondato una comunità di credenti, e noi siamo chiamati a diventare una comunità di credenti. Nella comunità si entra non perché si è brave persone o perché adattati all’ideale di bontà (quello di vita monastica di cui si diceva sopra) ma perché vivificati dal battesimo. Il battesimo è la radice della dignità dei singoli fedeli che diventa attitudine ad aprirsi all’intero corpo ecclesiale. Questo va evidenziato, la somma di buoni credenti non fa di loro una comunità, una chiesa. Quando poi parliamo di Chiesa, in realtà, parliamo di chiese, delle chiese locali. È un passaggio importante perché la chiesa locale è l’intero in cui vive il popolo di Dio in una condizione reale. La chiesa locale è tota ecclesia, una categoria che si scopre originaria rispetto alla categoria di chiesa (universale), essa è pietra viva, è dentro la storia, crea processi culturali e subisce processi culturali. Per chiarire: non avviene mai che nello stesso momento operiamo e pensiamo allo stesso modo. In altre parole, la chiesa locale non è la copia di una chiesa modello, di una chiesa universale. Se pensassimo che la Chiesa è questo pensiamo a una cosa che non ha luogo mai. Dove si troverebbe questa Chiesa? È una astrazione mentale, non esiste da nessuna parte ed è uno degli effetti del pensiero sacralizzante, il sacro che non ha tempo e luogo ed è sempre oltre. Se si pensa la Chiesa così, si ha come conseguenza che non si valorizzano i tempi e i modi delle chiese locali.
Le chiese locali sono invece le pietre vive immerse nella vita e per questo tollerano, anzi richiedono la valorizzazione delle diversità, richiedono tempi e modi diversi nella realizzazione, incarnazione di essere Chiesa. Qui vanno spese alcune parole sul sinodo tedesco, perché in questo discorso è esemplare, e perché siamo in Germania. Si sente dire più o meno questo: “I tedeschi vogliono alcune cose ma non avverranno perché la Chiesa non è pronta”. Ma quale Chiesa non è pronta? Si aspetta la sincronia, il camminare insieme allo stesso passo. Ma la sincronia è fatta per dire che non siamo tutti pronti e quindi stiamo fermi. Gli appelli alla sincronia producono uniformità e immobilismo. Siamo chiamati a governare la sinfonia non a rincorrere la sincronia-uniformità. La sinfonia produce unità, comunione. Allora il sinodo (camminare insieme) è da intendere in termini dinamici, in relazione alle storie culturali delle singole chiese. Quello della tensione fra centrale e locale è un punto fondamentale nella intenzionalità del sinodo in corso e non è solo la Germania a vivere questa tensione. È importante mostrare da quale quadro ecclesiologico nasce questa tensione fra centrale e locale. Certe differenze possono essere un servizio alla chiesa. Se uno è più veloce, è perché ha fatto il lavoro anche un po’ per gli altri e questo può essere un servizio per la Chiesa. Governare la sinfonia, e il sinodo, può e vuole farlo nelle sue finalità, significa allora domandare e ascoltare come una chiesa locale sia arrivata a certe proposte di cambiamento, da quali premesse sono partiti? Come ci sono arrivati? Un ritmo di comprensione più veloce e di soluzione dei problemi è un servizio agli altri. È il frutto del pensiero teologico che parte dall’ascolto della realtà. Alcune chiese locali per alcune consapevolezze hanno fatto un cammino più spedito, più produttivo, più generativo di essere chiesa. L’Instrumentum laboris del sinodo fa affidamento su questa volontà di comprensione.
Partecipazione
Partecipazione della Chiesa e partecipazione nella Chiesa. Pensiamo a tutto quanto detto sopra sulla separatezza. La chiesa si è per tanto tempo chiamata fuori da tutti i gangli vitali in cui il destino dell’umano era in pericolo. Ora per fortuna siamo in una consapevolezza di Chiesa che sta riscoprendo in maniera poderosa di essere parte dell’umanità e del suo destino e, il contributo del pontificato di Francesco, è essenziale a questo, (dall’Evangelii gaudium a Laudato si’ fino a Fratelli tutti). La Chiesa non si può chiamare fuori dal destino di umanizzazione dell’umano. Abbiamo avuto una Chiesa o che si è isolata o si è posta al sopra delle cose del mondo ritenendosi imparziale. Dimentichiamo che se c’è qualcuno che non è imparziale, che è invece parziale, si è fatto parte, si è messo dalla parte di qualcuno, questo era Gesù di Nazareth. Quindi oltre al pensare alla partecipazione come essere parte, “fare parte”, c’è anche quella che in tedesco si dice Parteilichkeit, la parzialità, la condizione da cui si parte o in cui si è. Questo ce lo hanno insegnato a livello teologico ed ecclesiale le teologhe femministe. La teologia femminista ha un pregio incommensurabile di dire che si parte, si comincia una riflessione teologica perché si è parte di qualcosa, non perché si è fuori. Un altro esempio: oggi noi scopriamo con papa Francesco che non c’è una vera Chiesa che non sia ospedale da campo, Chiesa in uscita, dalla parte dei poveri. Questa è la partecipazione della Chiesa. L’altra è la partecipazione nella Chiesa ossia la Chiesa che deve favorire la partecipazione, istituire luoghi di esercizio di partecipazione, e fare in modo che vengano riconosciuti. La sinodalità, ha scritto il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi, in uno studio del 2019, dovrà fare i conti con la trasformazione dalla forma consultativa alla forma deliberativa. È un esercizio che nel piccolo dovrà essere attivato, si pensi al consiglio pastorale. Occorrono dunque i corsi di formazione per acquisire una competenza comunicativa, sinodale. Da anni conosciamo gli studi del filosofo tedesco Jürgen Habermas sull’etica dell’agire comunicativo. Dal sinodo mi aspetterei percorsi formativi ben scanditi e non solo per i fedeli, ma anche per parroci, vescovi, clero. Una scuola di sinodalità che deve toccare tutti.
La missione
Parliamo della missionarietà della Chiesa. Nella cornice della sinodalità in cui ci stiamo muovendo, il soggetto della missione, cioè chi fa missione non sono individui o gruppi di individui nella Chiesa, ma è la Chiesa che, in quanto tale, è missione. La missione è l’evangelizzazione e non va confusa con l’attività dei missionari. La chiesa comprende e afferma il primato della evangelizzazione come momento generativo del suo essere e farsi Chiesa. Con evangelizzazione non si intende il controllo sulla dottrina. Vediamo più da vicino che cosa si intende con primato dell’evangelizzazione.
Nel marzo 2022 papa Francesco pubblica la costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla riforma della curia romana. Fino a poco tempo fa la curia, si diceva, era a servizio dell’esercizio di autorità del pontefice. Ora invece essa, come tutta la Chiesa, è a servizio dell’evangelizzazione. Francesco ha tolto nell’organigramma della curia la supremazia alla congregazione per la dottrina della fede (ex Santo Uffizio, e ancor prima dell’Indice). Veniva detta la Suprema e aveva il compito del controllo della dottrina. Con Praedicate Evangelium la prima congregazione costitutiva della Chiesa è il dicastero per l’evangelizzazione. Qui si vede molto bene come un cambiamento all’interno di una struttura comporti un cambiamento nel modo stesso di intendere la struttura, in questo caso la curia. La nomina del vescovo (presto cardinale) Victor Manuel Fernández a prefetto per il Dicastero della dottrina della fede va in questa direzione. Nella lettera del Papa, lo esorta a non essere un controllore, a non condannare ma a far fiorire il pensiero teologico. Tuttavia, viviamo ancora oggi sotto il residuato mentale di controllo e anche di censura, segno di tensioni nella curia. Un esempio? Poco prima della nomina di Fernandez, il dicastero, ancora diretto dal cardinale Ladaria Ferrer, non aveva concesso il nihil obstat a Martin Lintner, eletto dal collegio docenti decano della facoltà teologica di Bressanone.
Qual è allora l’oggetto della missione?
Ognuno di noi sa che cosa è avvenuto nel passato nell’attività missionaria della Chiesa. Oggi sappiamo che la Chiesa missionaria sta sotto il primato del vangelo e non del controllo, è una Chiesa che annuncia un vangelo, la buona novella di un Dio che ama l’uomo. Questo è il vangelo, chiama gli esseri umani alla salvezza e a una forma di risonanza nella loro vita ad affidarsi a lui e non è invece l’imposizione verso un’altra cultura. Andiamo ad annunciare un Dio che ci ama e che amandoci ci salva e che salvandoci ci ama. Il Vaticano II aveva capito che la teologia della missione, la missiologia doveva essere rinnovata e doveva essere rinnovata centrandola sulla categoria di salvezza: non vengo a indottrinarti, vengo a salvarti. E lo faccio parlando nella tua lingua, mi metto nel tuo contesto, tanto è vero che la teologia della missione ha sviluppato negli ultimi decenni la teologia del contesto. Già nel XVI sec. il gesuita Matteo Ricci (XVI sec.) diceva “fatti cinese con i cinesi”. Stiamo attenti ai linguaggi pietistici che non dicono più niente a nessuno. La missiologia della Chiesa è poi critica rispetto alle strutture di ingiustizia, ed è anche autocritica rispetto alle proprie strutture quando producono ingiustizia. La consapevolezza dei propri errori può essere un atto di crescita. Tutto quello che è stato fatto a partire dal tema degli abusi sessuali sta producendo enfasi e abbiamo bisogno di patirlo ancora di più ma è produttivo perché ci rende capaci in maniera collettiva di conversione.
Conclusione
La sinodalità non è una cosmesi, il cammino sinodale è il dono dello spirito alle chiese oggi. La sinodalità accompagna la Chiesa fin dal suo percorso originario ed è un’occasione di crescita nella nostra capacità di credere nella salvezza, nella fratellanza ed è questo che noi dobbiamo andare ad annunciare, a partecipare, e a condividere: la salvezza. Ma che cos’è la salvezza? Ci aiutano le parole di una scrittrice cattolica, Michela Murgia (scomparsa lo scorso 10 agosto, n.d.r.): “Far crescere il piacere di trovarsi liberi davanti a Dio che condivide il nostro cammino, è mettere gli antidoti affinché ciò che ha prodotto dolore e sofferenza venga contenuto. E se possibile anche eliminato” (God Save the Queer, 2022 Einaudi).