Il futuro delle nostre comunità – Ne parliamo con il teologo Salvatore Loiero
Salvatore Loiero è titolare della cattedra di teologia pastorale, pedagogia religiosa e omiletica presso l’università di Friburgo in Svizzera. La sua competenza è richiesta anche dalla Conferenza episcopale tedesca. Recentemente infatti è stato invitato come relatore al convegno di gennaio “Prospettive di una Communio viva ed ecclesiale di molte lingue e nazioni”.
Ha intrapreso la strada accademica ed è presbitero. Perché ha scelto di occuparsi di pastorale?
Le motivazioni si trovano nel mio background personale. Innanzitutto, devo precisare che sono cresciuto in una parrocchia di lingua tedesca, perché la missione cattolica italiana, che aveva sede in città, non si occupava dei credenti della periferia che, come noi, non avevano una macchina a disposizione per andare con semplicità in città. Nella “mia” parrocchia, sono cresciuto in una fede che è impensabile senza una pratica concreta. Sia come chierichetto, che come organista o come membro del consiglio pastorale, la mia pratica di fede era sempre in relazione con gli altri, il principio fondamentale di ogni pastorale. Con questa impronta ho iniziato i miei studi di teologia e, quando ho preso “gusto” al pensiero accademico, questa impronta mi ha accompagnato anche nella mia strada accademica, sia nella mia dissertazione in teologia sistematica su una cristologia esistenziale seguendo Karl Rahner e Edward Schillebeeckx, sia nella mia abilitazione in teologia pastorale su una cura pastorale del pentimento.
La missio cum cura animarum rispondeva in passato alla necessità di un tipo di pastorale assistenziale. Questa equivalenza è riduttiva?
Direi di sì, se viene inteso esclusivamente come compito delle missioni linguistiche nel passato e nel presente; no, se questa equivalenza viene collocata nel contesto dei processi di trasformazione pastorale di oggi, che toccano tutti gli spazi e le forme di cura pastorale nelle chiese locali. Il fatto è che le diocesi e le parrocchie stanno arrivando a capire che le precedenti forme di organizzazione territoriale e categoriale della Chiesa non funzionano più. La pandemia del corona ci ha mostrato questo in maniera particolarmente impressionante: le persone non si attengono ai limiti territoriali e decidono sempre di più dove vogliono vivere la loro fede e a chi chiedere assistenza pastorale. Quello che allora significava la missio cum cura animarum e una pastorale assistenza ha raggiunto così un nuovo livello: non è più da limitarsi a una cura pastorale categoriale, ma è da elevarsi a principio basale della cura pastorale in una Chiesa che ha come prima via l’uomo, così disse giustamente papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Redemptor Hominis”.
Che importanza hanno la pastorale e la liturgia nella propria lingua madre?
Vorrei avvicinarmi a questa domanda così: ciò che è importante per le nostre relazioni interpersonali è altrettanto importante per la nostra relazione con Dio, ossia il momento dell’intimità. L’intimità, tuttavia, richiede esperienze integrali e quindi ha bisogno di un “linguaggio” che mi tocca nel pensiero e nel sentimento allo stesso modo, soprattutto quando si tratta delle peripezie della vita umana in relazione alla fede. Quindi è evidente che la propria lingua e cultura nel senso di un “linguaggio” siano importanti per la pastorale e la cura spirituale e diventeranno sicuramente ancora più importanti in un mondo caratterizzato da una sempre maggiore globalità e mobilità.
Nelle nostre comunità molti missionari temono di cadere nell’insignificanza, di non avere voce in capitolo, di perdere una relativa autonomia decisionale, di non essere considerati alla pari con i parroci tedeschi, se le missioni dovessero perdere lo status di missio cum cura animarum. Secondo Lei, la trasformazione in corso nelle diocesi non potrebbe essere invece una chance per le comunità di far parte di un contesto più partecipativo, più collaborativo, sia che si chiami spazio pastorale oppure super parrocchia o altro? Potrebbe essere un modo per superare la polarizzazione fra Gast e Gastgeber, di cui Lei parlava? Che importanza hanno le strutture territoriali e che importanza ha la formazione interculturale di tutte le parti in gioco?
La paura che Lei descrive riguarda anche molti assistenti pastorali nei processi di trasformazione attuali. Questa paura è da prendere con grande serietà perché può far ammalare – non solo le persone ma anche il clima pastorale. Affinché in questo contesto qualcosa cambi è necessario che gli attori responsabili dei processi di trasformazione cambino il loro stile pastorale: è necessario uno stile che ascolti con apprezzamento, che discuta senza dominare, che comunichi in modo trasparente e che cerchi e sostenga soluzioni condivise. Finché questo non avverrà, nessuna paura potrà essere superata – sia essa giustificata o ingiustificata. Se la Chiesa comincia a immaginarsi come una comunità di apprendimento in cui la pluralità, l’interculturalità e la diversità formano lo stile pastorale, diventano possibili anche cammini di apprendimento per processi di trasformazione che non escludono nessuno e non fanno perdere a nessuno la propria dignità perché essi e anche le loro opinioni sono presi in considerazione in maniera rispettosa. Le missioni per esempio possono dare un contributo importante alle chiese locali – come spazio di ospitalità vissuta, aperta a tutte le persone, e come luogo che offre a tutti la possibilità di sentirsi a casa quando lo desiderano e per tutto il tempo che vogliono. Ciò che intendo con questo stile d’ospitalità può essere chiarito molto bene dal nostro italiano: mentre in tedesco si usano due termini per “Gastgeber” e “Gast”, nell’ italiano si usa lo stesso termine ospite. In questo orientamento sul significato dell’ospitalità c’è quindi un potenziale effettivo per superare qualsiasi società di classe nella Chiesa, per una Chiesa in molte lingue e culture. Perché nello spazio dell’ospitalità al centro c’è l’arricchimento reciproco e il dono, e non la celebrazione di un sistema gerarchico e un consolidamento di disuguaglianze e dipendenze. Se le missioni rappresentano questo carattere di ospitalità nel loro stile pastorale, non posso credere che possano semplicemente essere ignorate nei processi di trasformazione della Chiesa locale.
Alla luce della complessità della società contemporanea che si riflette anche nella eterogeneità della Chiesa, per molteplicità di lingue, di biografie, di differenti contesti sociali e culturali, di modalità diverse di vivere la spiritualità anche all’interno di una stessa comunità, come si può realizzare una Communio? Anche questo è un aspetto della sinodalità della Chiesa?
Anche se i motivi possono essere diversi sia dal punto di vista sociale che da quello ecclesiale ci troviamo di fronte a un grande punto interrogativo quando si parla di comunità. Spesso presumiamo che certe immagini e comprensioni di comunità siano presenti nella maggior parte delle persone e siano condivise e rispettate allo stesso modo dalla maggior parte. Ma non è così. Certo, ci si può lamentare di questa situazione ma poi non si deve nemmeno ignorare il fatto che le precedenti forme di comunità non hanno davvero integrato tutti. Parlare di comunità significa prima di tutto rendersi conto nuovamente di ciò che significa partecipazione. E partecipazione oggi significa che tutti gli individui sono importanti per una comunità, cioè che senza un individuo, manca al complesso qualcosa di essenziale per essa. Quando si pensa la partecipazione in questo senso, si può anche riflettere e pensare a un cammino di vera sinodalità. Per una comunità partecipativa e sinodale dobbiamo creare una nuova giustizia di risorse e responsabilità che permetta una “fusione di orizzonti e di vite” tra tutti gli attori coinvolti. Se noi come Chiesa riusciamo a realizzare una giustizia di risorse e responsabilità nelle e dalle molte lingue e culture, allora possiamo davvero dare qualcosa di importante anche alla società. I “segni dei tempi” sono chiari: ora abbiamo nelle nostre mani il compito di diventare una “Chiesa in uscita”, come dice Papa Francesco, che, con uno stile pastorale rinnovato, renda testimonianza sia all’interno sia all’esterno del “perché” di essere Chiesa: il “Deus humanissmus” di Gesù, come disse Edward Schillebeeckx, che è un Dio che è completamente innamorato di ogni persona e preoccupato per la sua salvezza.