Intervista a don Luigi M. Epicoco. Terrà il prossimo incontro di formazione cristiana della Missione cattolica di Colonia il 29 e 30 aprile
Don Luigi Maria Epicoco, classe 1980, teologo e scrittore, sarà presente nella Missione italiana di Colonia sabato 29 e domenica 30 aprile 2023 per intervenire sul tema: “Superstizione o fede? Dalla religiosità naturale alla religione rivelata”.
Di origini pugliesi, ma adottato da L’Aquila, don Epicoco è stato ordinato prete nel 2005 nel capoluogo abruzzese dove ha vissuto anche la tragedia del terremoto del 2009, quando nella sua veste di cappellano degli universitari fu colpito in particolare dal dramma degli otto giovani della Casa dello Studente rimasti sotto le macerie.
Don Luigi è molto conosciuto grazie ai tanti libri pubblicati e alle catechesi tenute online. Fra le sue più recenti pubblicazioni ricordiamo: La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente, Rizzoli, 2022; Le affidabili. Storie di donne nella Bibbia, Tau, 2023; Solo i malati guariscono. L’umano del (non) credente, San Paolo Edizioni, 2016; “Prega, mangia, ama”. Esercizi spirituali sul Vangelo di Luca, San Paolo Edizioni, 2022;
Telemaco non si sbagliava. O del perché la giovinezza non è una malattia, San Paolo Edizioni, 2018; La luce in fondo. Attraverso i passaggi difficili della vita, Rizzoli, 2021.
Don Luigi come desidera presentarsi?
Io sono un prete che tenta di fare il prete in tutti i modi che il Signore gli mette a disposizione. Tra questi anche la scrittura, la formazione e l’insegnamento. Fondamentalmente mi sento un prete che cerca di vivere il sacerdozio anche fuori dalle cosiddette “circostanze ordinarie”. Sono stato per tanti anni parroco ma ora esercito il ministero in altre modalità.
Don Luigi spesso, nella Chiesa, i giovani sono visti come “un problema”: …questi giovani che non vanno più in Chiesa, che non rispettano le regole e così via… Ma nelle sue parole ritrovo invece uno sguardo diverso su di loro, è così?
Assolutamente sì! Noi, Chiesa, dobbiamo eliminare il pregiudizio che vede i giovani come “un problema da risolvere”. Se qualcuno ha un problema questi sono gli adulti, siamo noi adulti, non i giovani. È vero che la giovinezza è sempre un’età di crisi, un’età problematica ma è la problematicità della vita che sta sbocciando! Non è la problematicità di una vita che va a sbattere. Se va a sbattere è perché a volte mancano dei punti di riferimento, di orientamento. Manca un senso grande della vita. Il Vangelo è sempre lo stesso. Ieri, oggi e sempre, ma, non so se oggi noi lo stiamo traducendo in modo da renderlo comprensibile alle nuove generazioni. Quindi la vera domanda è come noi stiamo annunciando il Vangelo. Spesso ci chiediamo se i giovani sono o meno interessati al Vangelo ma questa è una domanda falsa, che non ha senso. È sicuro che i giovani hanno sete di Dio. San Giovanni Paolo II, durante la GMG di Tor Vergata, nel 2000, fece un discorso memorabile ai giovani dicendo loro: “È Gesù che cercate quando cercate la felicità”. Ed è cosi: i giovani non lo sanno, loro cercano di essere felici e noi adulti dovremo solo aiutarli a dare un nome a questa felicità.
A volte ci troviamo davanti ad una Chiesa che non riesce a reggere, a stare davanti al conflitto. Una Chiesa, inoltre, nella quale il Papa stesso continua a denunciare la presenza di “clericalismo”, ovvero di un potere che non sa e non vuole farsi servizio. Che cosa pensa Lei in proposito?
Quando noi ci troviamo davanti ad un “corpo vivo” ci sentiamo spiazzati perché non abbiamo il controllo totale sulle cose. La conflittualità ha due aspetti: uno positivo ed uno negativo. Quando è positiva, la conflittualità racconta che esiste la convivenza di cose, idee, letture della realtà diverse e questo può essere solo un arricchimento. Poi esiste la conflittualità che nasce dal fatto che noi vogliamo uniformare, vogliamo, cioè, risolvere i conflitti eliminando ciò che diverge dalle nostre idee. Nella Chiesa, ad esempio, viviamo la conflittualità nel suo aspetto negativo quando non accettiamo le diverse prospettive, i diversi modi di essere Chiesa. Questo tipo di uniformità ammazza lo Spirito, ammazza la profezia. La bellezza della Pentecoste è che ognuno si ritrova a parlare una lingua diversa ma comprensibile all’altro. Se a Babele ci troviamo di fronte ad una diversità che è incomunicabilità, nella Pentecoste, invece, la diversità nasce dalla comunione e quindi è comunicabilità. Vi è una grande differenza tra comunione ed uniformità, tra essere uniformi ed essere in comunione.
Toccando il tema della catechesi che lei terrà a Colonia, don Luigi, parliamo della distinzione tra fede, devozionismo e superstizione…
Noi a volte facciamo molta confusione tra religione e fede. La religione, per sua natura, rassicura. Molto spesso è un insieme di cose umane, molto umane, nate da un bisogno psicologico di rassicurazione. Quindi tutte le nostre superstizioni sono semplicemente il paganesimo che riportiamo in vita nel nostro modo di credere. Abbiamo un grande bisogno di sentirci rassicurati e la fede non possiamo utilizzarla per questo. La fede non rassicura, la fede incoraggia, ci spinge al largo. Non è una tana sicura, la fede ci spinge fuori dalle nostre sicurezze, ci invita ad osare… Dio non è un antidolorifico. Dio non è qualcosa che noi utilizziamo per non avvertire la vita ma è la forza che ci viene data per affrontare la vita stessa. Quando noi riduciamo Dio al feticismo dei nostri oggetti, al feticismo dei nostri devozionismi, lì non troviamo più Dio ma solo le nostre paure travestite da Dio. E le nostre paure, travestite da Dio, non salvano e non reggono il confronto con la realtà quando questa si fa difficile. La fede invece sì. La fede ci è d’aiuto quando tutto sembra perduto, quando tutto va in mille pezzi. Proprio in quel momento Dio esercita il suo essere Dio.
Come crescere allora nella fede, per essere adulti nella fede?
Dobbiamo stare attenti a non fare confusione tra cultura religiosa e fede. Noi siamo nati in una cultura religiosa e in essa abbiamo ricevuto anche dei sacramenti ma la fede inizia quando c’è un incontro. E questo incontro con il Signore non avviene con un’apparizione, con evento eccezionale ma spesso, avviene, nei momenti della vita molto drammatici o molto gioiosi come la perdita di una persona cara o l’attesa di un figlio. In quei momenti ci si accorge che c’è qualcosa di più di ciò che si vede e che Dio si nasconde esattamente lì. Da quel momento, da quell’incontro in poi nasce un percorso, un cammino. Questo cammino però non ci rende da piccoli a grandi anzi esattamente il contrario. Dobbiamo tornare all’infanzia spirituale. Si diventa adulti nella fede quando si torna ad essere bambini. Ma attenzione: non infantili ma bambini, bambini capaci di affidarsi.
Siamo nel Sinodo universale, si sente parlare di sinodalità, ma forse ne sappiamo ancora poco. Che cos’è, don Luigi, una Chiesa sinodale?
Inizierei col dire che la sinodalità non è una scoperta dell’ultima ora o un’intuizione dell’ultimo momento, essa è costitutiva del nostro essere Chiesa. Il grande fraintendimento è confondere la sinodalità con il coltivare una forma democratica di ecclesialità dove le maggioranze e le minoranze decidono la vita della Chiesa. La sinodalità non è assolutamente questo ma è credere che si può essere Chiesa senza mai tagliare l’altro. Sono le relazioni il luogo in cui Dio parla non i simboli. Dio non parla al Papa ma al Papa in comunione con la Chiesa. Dio parla a noi in comunione tra di noi e nelle nostre relazioni Dio diventa comprensibile. Mi piace, in questo tempo in cui il tema della sinodalità nella Chiesa è molto presente, raccontare le vicende narrate nella Bibbia come storie sinodali. Ad esempio se pensiamo a Mosè noi lo vediamo come un eroe, egli è colui che ha liberato Israele… in realtà Mosè è un uomo problematico, È un omicida, non si assume le proprie responsabilità… è un uomo pieno di difetti. Mosè ha potuto compiere il suo destino solo perché ha avuto accanto delle relazioni che l’hanno aiutato come quelle con Aronne e Maria. Pensiamo ad esempio al momento in cui Mosè deve parlare al faraone e Aronne lo fa per lui perché lui è balbuziente. Per compiere il suo ministero, Mosè ha bisogno degli altri. Nella Chiesa, nel momento in cui escludiamo qualcuno ci autoescludiamo dalla possibilità di poter realizzare la nostra vocazione. La sinodalità è la scoperta dell’essenzialità dell’altro.
Lei ha scritto molti libri, qual è il libro che più ama e qual è stato il più difficile da scrivere?
Chiaramente ogni libro ha la sua storia e non posso dire di amarne più uno degli altri ma mi viene in mente uno dei miei primi testi, un piccolo testo scritto qualche anno fa. Si intitola Solo i malati guariscono e scriverlo è stato per me l’ elaborazione del terremoto che ho vissuto all’Aquila nel 2009. È stato un libro che ho scritto piangendo. E poi Telemaco non si sbagliava che ho scritto interamente in Terra Santa e per questo è un libro che amo molto. Ognuna di quelle pagine è legata ad un pezzo di quella terra. L’ultimo capitolo “la nostalgia del Padre”, che riflette sul rapporto di Gesù con suo Padre, l’ho scritto interamente seduto sul Calvario.