Nella storia della santità della Chiesa cattolica quella che riguarda sant’Antonio di Padova è una storia particolare. Un uomo, un santo che dopo ottocento e più anni continua a far parlare di sé; un culto presente a livello internazionale, quale chiesa, e spesso anche luoghi di culto non cristiani, non ha una sua immagine? Un santuario che ne conserva le spoglie, quello di Padova, diventato uno dei più frequentati a livello mondiale. Aspetti questi, e molti altri ancora, che dicono di un “fenomeno antoniano” dalle molte sfaccettature. Vorrei condividerne con voi alcune, per entrare e comprendere questo fenomeno. Desidererei farlo con alcuni interventi che vorrei progressivamente proporvi.
Antonio, chi è costui?
Per capire chi è Antonio, dobbiamo partire da Fernando. Era questo il suo nome di battesimo. Nato a Lisbona, figlio di Martino, presumibilmente nel 1195, da una famiglia che apparteneva al ceto legato alla monarchia portoghese che si andava rafforzando proprio in quegli anni. Sappiamo di una formazione culturale che avviene nella scuola cattedrale della città, vicina alla casa natale (come si può vedere ancora oggi, trasformata in chiesa nel cuore della città vecchia di Lisbona). Aveva circa quindici anni, era allora già un’età per decidere, quando sceglie di entrare nel monastero di San Vincenzo dei canonici agostiniani della città. È un ambiente che non lo soddisfa. Sceglie, allora di trasferirsi in un altro monastero, Santa Croce, a Coimbra, capitale allora del regno lusitano.
Un monastero importante, legato alla stessa dinastia regale, che lo fornisce di mezzi che devono riflettere il prestigio della committenza regia. Un luogo dotato di una ricca biblioteca, di una famosa farmacia, e di una rete di parrocchie dipendenti dal monastero stesso.
Qui il giovane Fernando Martins riceve un’istruzione di alto livello teologico, grazie a maestri che si erano formati a Parigi. Un luogo prestigioso, ma anche di potere con i conflitti che il prestigio da difendere e la ricchezza da gestire comportano. La storia ci ha lasciato una consistente documentazione di questa conflittualità che finiva in interminabili processi, portati fino al tribunale supremo della Sede apostolica. Il luogo era prestigioso, ma non sufficiente per rispondere alle domande di autenticità evangelica che fermentavano dentro il giovane Fernando.
Come trovare una risposta?
La risposta sembra venire quando alla porta del monastero si affacciano cinque strani uomini, poveramente vestiti, che venivano dall’Italia. Si facevano chiamare fratelli minori; minori rispetto a quanti detenevano potere e ricchezza. Si rifacevano a quel giovane uomo di nome Francesco che ad Assisi aveva cambiato vita, lasciando una ricchezza esibita, ricoprendosi di sbeffeggiamenti da parte dei suoi concittadini, ma sempre più credibile per la radicalità con cui viveva il vangelo. Vivere il vangelo, pienamente, radicalmente. Era questo l’orizzonte che affascinava molti cristiani del tempo, stanchi di beghe e litigi di chierici potenti, ricchi, credenti, forse, ma non credibili nella loro testimonianza. È proprio la loro radicale credibilità che affascina l’inquieto ricercatore di verità che è il giovane Fernando. Quando, dopo un anno, i corpi dei cinque frati martirizzati in terra d’Islam, vengono riportati a Santa Croce, Fernando decide di compiere il salto. Era il 1220, quando lascia il prestigioso monastero reale, per affacciarsi, chiedendo di essere accolto, nel povero eremo di Sant’Antonio abate, nella periferia di Coimbra.
Il canonico Fernando diventa frate Antonio, ponendo la condizione di essere inviato in terra d’Islam, cercando il martirio, la prova suprema del radicalismo cristiano. Questi erano i suoi progetti. Non quelli dell’Altissimo. Fallito nel suo sogno di martirio, sballottato sulle coste siciliane, prende la strada verso Assisi dove si celebrava un importante appuntamento dei molti fratelli minori che da varie parti d’Europa erano lì confluiti, attorno alla figura del leader carismatico Francesco. Sconosciuto. Imbarazzato forse di fronte a tanto movimento. Viene inviato in un eremo, a Montepaolo, sulle colline forlivesi. Qui Antonio deve ritrovare il senso della sua vita, dei suoi sogni falliti, di capire il progetto di Dio. Un Dio che parla nel silenzio, nella brezza leggera della sera, come era stato per il profeta Elia. L’occasione è data quando Antonio, costretto a predicare a Forlì, si rivela come l’uomo della parola. Una parola potente, convincente perché maturata nel grembo del silenzio che ascolta.
A Forlì nasce il secondo Antonio. Il predicatore instancabile per le terre d’Italia e poi della Francia, che annuncia con forza e passione la Parola di Dio, chiamando a conversione, a ristabilire relazioni fraterne, a chiedere maggiore giustizia sociale in nome di un Dio che è padre di ogni uomo. Lo fa in modo convincente. Per la sua credibilità, lo stesso frate Francesco lo incarica di formare i frati perché imparino a predicare fondandosi sulla parola di Dio. La Bibbia diventa il suo testo, il simbolo con cui viene raffigurato nella iconografia che lo rappresenta. A Bologna prima, poi in Francia, annunciatore della verità evangelica imbrattata dall’eresia. Nel 1227 rientra in Italia, con il compito di organizzare la vita dei fratelli sempre più numerosi, che vanno insediandosi nelle varie città del Nord Italia. La gira, instancabilmente fino al 1230. È questo l’anno in cui può stabilirsi a Padova, città che già gli era cara, per completare quelle sue lezioni di teologia offerte ai frati, note nel testo dei sermoni che ci sono rimasti. Avrebbe voluto completarli, se non fosse stato preso dall’urgenza, dal fuoco e dalla passione della predicazione. Ogni giorno, per quaranta giorni di seguito, nelle chiese, e quando queste non erano in grado di contenere tanta gente, nelle piazze di Padova. Una predicazione che indicava il cielo, passando per la terra, chiedendo giustizia. È grazie alla sua parola appassionata che il Comune stesso di Padova il 17 marzo 1231, cambia gli Statuti cittadini con una legislazione a favore delle vittime della dilagante usura che gettava sul lastrico intere famiglie. Un impegno che fa di frate Antonio un uomo sfinito. Sfinito, ma non finito. Camposampiero, un borgo a 20 chilometri da Padova, diventa l’eremo in cui recuperare le forze. Forze che non ci sono più. Sentendo che il suo tempo si andava compiendo, chiede di poter chiudere i suoi giorni nella dimora padovana di Santa Maria “Mater Domini”. Non ci arriva, obbligato a fermarsi nel suburbio dell’Arcella, presso le monache clarisse, dove chiude i suoi giorni il 13 giugno 1231, pronunciando le ultime parole, “Vedo il mio Signore”.
Sarà la voce innocente dei fanciulli ad annunciare alla città che è morto il Santo, il padre santo: santo per la credibilità della sua vita; padre per aver generato a Cristo con la forza della Parola, la città di Padova, che lo riconoscerà suo padre e patrono.
Chi è dunque Fernando-Antonio? L’inquieto giovane assettato di assoluto, il predicatore appassionato nell’offrire la Parola di Dio capace di costruire relazioni umane; il santo che si china sulle fatiche dell’uomo, capace di asciugarne le lacrime.