Goethe da Venezia a Roma nell’autunno del 1786
14 ottobre: è ora di partire per Ferrara, destinazione Roma. Perché Goethe deve assolutamente arrivare nella Capitale per la festa di Ognissanti. Ma lascia Venezia “con animo lieto”, perché ormai tanti se ne vanno “per le loro ville di terraferma”, e poi perché ha già fatto “un buon bottino” di immagini della città da portare come viatico per il viaggio. Un viaggio che prosegue “piacevolissimo”, su una “barca-corriera” che lo porta a Ferrara. Nei due giorni di percorso ha modo di apprezzare quel “tempo splendido”, quel clima per il quale “sarebbe disposto a lasciar tutto”, al punto da constatare ancora una volta che “qui si vive ben altrimenti che da noi”.
Per quanto sia “piacevole” il viaggio, due notti passate sopra coperta e la fretta di dedicare un solo giorno a Ferrara portano un certo affaticamento ed un po’ di malumore, per cui è più disposto a “prendere poca parte alla visita della città” ed a coglierne gli aspetti meno attraenti (“è tutta in piano e spopolata… non c’è un cane che ti sappia dir qualcosa, se non con la mancia”), pur riconoscendo “la bella Università”, alcuni monumenti antichi e la splendida Corte, nonché la tomba dell’insoddisfatto Ariosto e la prigione dell’infelice Tasso. Riacquista il buon umore il giorno dopo ed apprezza con tanto trasporto gli Appennini, (“oramai ne ho abbastanza di pianure”), la cittadina di Cento, “piacevole, ben fabbricata ed animata”, ed il Guercino, nativo del luogo, “il cui nome è sacro a tutti, vecchi e giovani”. Gli “vanno molto a genio” alcuni quadri, un Cristo risorto, “di una bellezza inarrivabile”, una Madonna col bambino che cerca il seno della madre, ed un’altra Madonna col bimbo che benedice chi lo guarda, dipinti che “presentano una grazia gentile, una spontaneità ed una grandiosità pacata e serena”.
A Bologna, con il cuore e la mente carichi di suggestioni
Ormai preso dal suo “correre senza fermarsi”, il mattino dopo “di buonissima ora” parte da Cento per Bologna, dove ha la fortuna di trovare uno svelto cicerone di piazza, che lo accompagna “a precipizio in tante strade, in tante chiese”.
Cosa gli resta in mente? La santa Cecilia di Raffaello, allora nella cappella Bentivoglio della chiesa di San Giovanni in Monte, che gli dà occasione di esprimere la sua ammirazione per il grande pittore di Urbino (“Riusciva sempre a fare quanto gli altri desideravano fare ”) e poi le opere di Guido Reni, “genio sublime, dal pennello soave”, la sua Pala dei Mendicanti nella chiesa di S. Maria della Pietà, popolata di santi, angeli e putti, “un vero capo d’opera di pittura, ma purtroppo senza senso”, perché secondo lui non esprime un’idea, come tante altre opere dipinte su commissione. Ciò nonostante ammira altri dipinti del Reni, un san Giovanni nel deserto ed un san Sebastiano e la “Madonna che allatta” al palazzo Tanari: “La testa si direbbe dipinta da un Dio, è indescrivibile l’espressione di affetto con cui la madre contempla il divin pargoletto”.
Nel valutare gli esponenti della pittura bolognese del tempo, i Carracci, il Domenichino ed appunto il Reni, conclude la sua visione critica con una riflessione di fondo di inattesa modestia: “Per poterli apprezzare a dovere, occorrerebbero scienza e criterio, che ora mi fanno difetto e non potrò acquistare se non a poco a poco”.
Quelle figure di santi, ad ogni modo, sono per lui fonti di ispirazione letteraria, in particolare una sant’Agata, attribuita a Raffaello. Gli richiama alla mente la sua Ifigenia, l’eroina della tragedia di Eschilo (“Ifigenia in Tauride”), che sta riscrivendo in versi, proprio in quei giorni. Verso sera, dopo aver fatto visita al famoso Studio universitario (“grandioso e di bell’aspetto”), riesce “a sottrarsi a questa veneranda e dotta città” per andare alla scoperta dei portici e delle torri, a contemplare panorami stupendi, un cielo purissimo, orizzonti che con l’immaginazione spaziano fino al Friuli, al Tirolo, alla Svizzera. Solo la torre pendente, la Garisenda, disturba la sua mente ordinatrice. La giustifica solo come una stravaganza dei primi costruttori.
Ma la scoperta più esaltante è quella compiuta in una stupenda giornata all’aria aperta. il 20 ottobre, in un’escursione a cavallo a Paderno, dove trova la pietra bolognese, lo spato pesante, da cui si ricavano delle pietruzze, che, “esposte dapprima alla luce del sole, brillano nelle tenebre” e per questo vengono chiamate “fosfori”. L’entusiasmo del geologo è grande e si sofferma a descrivere la formazione di queste pietre e del terreno circostante. Soddisfatto se ne torna in città, “carico di sassi”.
È ancor più contento perché trova per caso un vetturino, che l’indomani sarebbe tornato a Roma, disposto a dargli un passaggio. Si sente “spinto innanzi da una forza irresistibile”, per cui dura fatica a fissare l’attenzione sul presente.
Verso Roma, sempre attento alla natura, alle scienze, all’arte classica
Non si rende ancora conto se “sia partito spontaneamente da Bologna o sia stato cacciato di là”. Sente di “aver afferrato con vera frenesia un’occasione di venir via”. È il 21 ottobre e si trova in una povera locanda di Logano, sull’Appennino, in compagnia di un ufficiale dell’esercito pontificio. Goethe si presenta come tedesco e, per questo, vicino come formazione al ceto dei militari. Ma su questo terreno non trova corrispondenza, perché l’ufficiale pontificio garbatamente gli risponde che non vede l’ora di smettere la divisa.
Nel corso del viaggio, però, il militare si dimostra più interessato ad alcuni temi religiosi, una volta scoperto che il suo interlocutore è protestante. Comincia a far domande su certe voci relative al modo di concepire la confessione ed il matrimonio e su una presunta adesione segreta al cattolicesimo di Federico il Grande, che Goethe in parte conferma, in parte smentisce, lasciando il compagno di viaggio convinto della maggiore libertà di vedute dei protestanti.
Nel frattempo, approfittando di qualche pausa nel dialogo con l’ufficiale pontificio, ha modo di ammirare gli Appennini, “una contrada meravigliosa”, ricca di terreni coltivati, in cui “abbondano i castagni, i cereali, le praterie”, anche se il viaggio non si presenta più “tanto facile e piacevole”. Finalmente escono dai monti e giungono in vista di Firenze, “stesa ed adagiata in un’ampia valle, stupendamente coltivata e popolatissima di case e di ville”. Ma ha giusto il tempo per una rapida corsa nella città ed una visita al Duomo, al Battistero ed agli “amenissimi” giardini di Boboli. “Qui si apre davanti ai miei occhi un mondo nuovo e sconosciuto, nel quale però non mi voglio intrattenere”. Prende rapidamente congedo dalla Toscana, di cui ammira l’ordine di ogni cosa, la pulizia, gli usi ed i costumi “pieni di grazia”, e saluta il capitano diretto a Perugia.
Si concede solo il tempo per ammirare in Assisi Santa Maria della Minerva, tra i templi romani meglio conservati del mondo antico, anche se trasformato nel Cinquecento in chiesa cristiana. “Non potevo saziarmi di contemplare la facciata, tanto è geniale e felicemente connessa in ogni sua parte…A malincuore mi allontanai da quel bel monumento, proponendomi di chiamare su di esso l’attenzione degli architetti”.
Sempre di fretta, in una bellissima sera può tornare sulla strada che porta a Roma, “tutto soddisfatto”, anche se “scosso, balestrato, dondolato” da una vettura scomoda. Solo ora si accorge “dell’imprudenza commessa nell’intraprendere questo viaggio da solo, con la diversità delle monete, dei prezzi, alle prese con i vetturini e con locande pessime”. Si trova di continuo “molestato da qualche contrarietà” (appena sceso da Assisi viene quasi aggredito da “schiamazzatori” che alla fine si accontentano di qualche moneta), ma è il desiderio “di visitare questa contrada a qualunque costo” che non gli fa “muovere alcuna lagnanza”.
Trovarsi nella “terra classica”, di fronte a tanti ricordi della storia, gli “dà molta soddisfazione, gli allarga la cerchia delle idee”, al punto che si corica vestito “per l’impazienza di arrivare”, contento di “cacciarsi entro la vettura e di passare la giornata tra il sonno e la veglia, fantasticando”.
Finalmente il vetturino annuncia che l’indomani (29 ottobre) sarebbero giunti a Roma. “Duro fatica a prestarvi fede. E che cosa mi rimarrà a desiderare, quando avrò soddisfatto questo mio desiderio?”. (continua)