Non è facile immaginare come una vasta area dell’attuale sestiere di Castello sia rimasta per lunghi secoli quasi disabitata e in gran parte coltivata a vigneti, i più estesi e fecondi di tutta Venezia, appartenenti alla famiglia Ziani.
E fu appunto Marco Ziani, figlio del doge Pietro, ad assegnare per lascito testamentario nel 1253 “una vasta vigna in cui eretta si vedeva una chiesa” ai frati minori di S. Francesco, perché costruissero un loro convento. La modesta chiesetta era dedicata a san Marco, perché proprio in quel luogo, secondo la tradizione, aveva soggiornato il Santo evangelista:
“Ritornando il Santo da Aquileia”, racconta Andrea Dandolo nella sua Cronaca, “dove aveva piantato l’Evangelio, verso Roma, giunse alla palude chiamata Rivoalto, ove, incalzando il vento, si fermò ad un luogo eminente nella laguna, e, rapito in estasi, udì dirsi da un angelo: «La pace sia con te, o Marco, qui riposerà il tuo corpo». Credette l’apostolo che con ciò gli venisse predetto il naufragio, ma soggiunse l’angelo: «Non temete, o Evangelista di Dio, molto ti resta ancora da patire. Dopo la tua morte qui si fabbricherà una città, ove sarà portato il tuo corpo e tu sarai il protettore»”.
L’antica chiesetta fu conservata accanto ad una nuova, dedicata a San Francesco, ed alzata dalle fondamenta su modello di Marino di Pisa. Ogni anno il Doge ed il Senato si recavano a visitare l’antica chiesa, che si credeva fabbricata sul sito preciso ove l’angelo apparve.
Il convento “crebbe in numero e in splendore di virtù e di dottrina” e sempre più alcune nobili famiglie veneziane provvidero alle necessità dei Frati Minori, erigendo a proprie spese la nuova chiesa (famiglia Marcimana) e rifabbricando il convento (famiglia Bragadin), che fu dotato di una prima raccolta di libri pregiati. L’esemplare vita dei Frati attirava sempre nuovi neofiti e personaggi destinati a percorrere il cammino della santità, come S. Bernardino da Siena, S. Bernardino da Feltre ed altri beati, che diedero illustri testimonianze della loro virtù.
La cabala nella disputa tra Sansovino e Palladio
Ma la progressiva precarietà dell’edificio sacro e l’esigenza del popolo insediato nella zona dell’Arsenale portarono alla ricostruzione della chiesa. Il progetto fu affidato al Sansovino, da qualche anno approdato da Roma a Venezia, ma la costruzione (prima pietra il 15 agosto 1534) si trascinò per qualche decennio a causa di una fiera disputa sulla facciata, complici le direttive approvate nel Concilio di Trento.
Il Sansovino ebbe a che fare con un dotto frate francescano, Francesco Zorzi, esperto di cabala. Incaricato di sovrintendere ai lavori, sosteneva la necessità che la chiesa “riflettesse per intero l’armonia universale”, fondando sul numero 3, simbolo della Trinità, le proporzioni dell’edificio. Doveva avere una lunghezza pari a 3 volte la larghezza (27 piedi per 9), sulla stessa scala dovevano essere i rapporti tra cappella maggiore e cappelle laterali e tutti glì altri rapporti. Il numero 3 ricordava le note fondamentali della tradizione musicale pitagorica (Do, Sol, Mi), che nella cabala musicale esprimevano lo Spirito Santo (Do – Corpo – lunghezza della navata), il Figlio (Mi – l’Anima – la larghezza delle cappelle laterali) ed il Padre (Sol – lo Spirito – l’altezza della cappella maggiore). Ed il quadrato ed il cubo del numero 3, sosteneva lo Zorzi nella sua opera “Harmonia mundi totius” del 1525, rifacendosi a Platone, contengono l’ordine e l’armonia del cosmo.
Oltre al rispetto di questa complessa rete di rapporti, si poneva per la facciata il problema, già noto agli architetti del Rinascimento, di adattare la fronte di un edificio ad aula unica, com’era il tempio antico, alla planimetria a più navate delle chiese cristiane. La facciata proposta dal Sansovino non risolveva la questione ed anche per questo i lavori di completamento si bloccarono. Fu Daniele Barbaro, esponente di una delle potenti famiglie che sostenevano Palladio, a convincere il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani ad affidare all’architetto padovano la costruzione della facciata.
Il capolavoro palladiano
Palladio risolse il problema con innovativa eleganza, progettando un doppio frontone, uno in funzione delle navata centrale ed uno in funzione di quelle laterali, che rendeva leggibile la suddivisione interna degli spazi. “Mai s’era veduto nulla di simile, mai una chiesa cristiana aveva assunto tanto filologicamente le fattezze ed i segni distintivi del tempio pagano per dimensioni, linguaggio, maestosità”, commenta il prof. Romanelli.
Sempre rispettando i principi della symmetria di Vitruvio e non disdegnando le prescrizioni di frate Zorzi, Palladio scelse come unità di base per tutte le dimensioni della facciata il diametro delle piccole colonne (2 piedi).
Così, finalmente, si riuscì a completare la chiesa, che fu consacrata il 2 agosto 1582 dal vescovo di Caorle. Così San Francesco della Vigna divenne una delle più ammirate architetture del Rinascimento veneziano, soprattutto per quella facciata di marmo “che supera in maestà qualunque altra della città”.
I tesori di San Francesco della Vigna
Molte famiglie nobili la scelsero come sepoltura, l’arricchirono di opere d’arte e di ornatissimi altari, incrostati di marmi figurati. Le cappelle laterali di destra ospitano le sepolture dei Bragadin, dei Badoer-Surian, dei Contarini, dei Malipiero-Badoer, dei Barbaro, dei Morosini, mentre le cappelle di sinistra quelle dei Grimani, dei Montefeltro, dei Basso-Sagredo, dei Dandolo, dei Giustinian, dei Priuli. Non potevano mancare autentici tesori di reliquie, raccolti in una cappella, denominata per questo la Cappella Santa.
Al primitivo piccolo convento si unì nel ‘400 un convento molto più grande, formato da tre grandi chiostri. Nel corso dei secoli, a partire da un “cenacolo che raccoglieva i letterati della città”, si andò formando un notevole patrimonio librario, che costituì l’attuale biblioteca, composta da 80.000 volumi e circa 13.000 libri antichi, tra i quali numerose Bibbie ebraiche e la prima copia stampata del Corano. Anche per questo il convento ospita un convito ecumenico e multiconfessionale di studenti e professori di teologia provenienti da tutto il mondo.
E la vigna?
Quel che resta dell’antica vigna viene gelosamente custodito in uno dei tre chiostri, in un vigneto urbano, un vero tesoro tra i tesori della chiesa. Si coltivavano, oltre al più antico vitigno di Venezia, viti di Teroldego del Trentino e di Refosco del Friuli per produrre un vino che non poteva che essere denominato Harmonia Mundi. Ora gli agronomi di santa Margherita, che hanno la cura della vigna, stanno sostituendo le viti più vecchie con vitigni di altre uve pregiate.