“Un ampio stradone, affiancato da alberi alternati a statue, apriva la visione su un nuovo e regolare giardino, preceduto da due file di cedrere e da un ponte, e lasciava intravvedere la vastità delle peschiere, delle aiuole, dei colonnati, l’amenità dei luoghi… al punto da non far provare alcuna invidia per le più cospicue Ville dei principi romani ”. Se questo non era un “Paradiso” poco ci mancava. Così veniva denominata quella località, alle porte di Castelfranco Veneto, che a maggior ragione si meritò quell’appellativo dopo l’intervento voluto da Nicolò Corner, della Ca’ Granda. Il nobile proprietario, all’inizio del 1600, fece abbattere il vecchio palazzo del “Paradiso” sostituendolo con un altro palazzo a quadrilatero massiccio, e diede una nuova sistemazione al parco, secondo i dettami dei giardini all’italiana. Il tutto fu affidato all’architetto vicentino Vincenzo Scamozzi, continuatore del Palladio ed innovatore (Procuratie Nuove a piazza San Marco, Villa Pisani a Lonigo).
Finché le sorti dei Corner rimasero floride, i palazzi ed il parco furono un vanto per la città di Castelfranco, ma già verso la fine del ‘700 il complesso risultava in abbandono, tanto che il “Paradiso” si andò un po’ alla volta dissolvendo, le dimore furono abbattute ed il giardino addirittura arato.
Non ci si poteva rassegnare a quell’infelice sorte. La famiglia Revedin, residente a Padova, acquistò nei primi anni dell’800 il compendio ed il giovane conte Francesco, dopo averlo ingrandito con altre case e terreni, decise di trasferirsi proprio a Castelfranco. In breve divenne “signore e padrone politico” della città, forte dell’appoggio del governo austriaco, che lo nominò ciambellano di corte, aiutante di campo di Sua Maestà imperiale e capitano degli Ussari.
Verso la metà dell’800 il conte Francesco diede incarico all’architetto G. B. Meduna, molto stimato a Venezia come restauratore (Teatro La Fenice, Ca’ d’Oro, Basilica di San Marco), di costruire un Palazzo nuovo nella proprietà del Paradiso. Così sorse, nella stessa sede del vecchio Palazzo, la grande Villa che ancora ammiriamo, costituita da una serie di edifici disposti attorno a due cortili e distinti in una parte padronale (due ali ortogonali) ed in una parte agricola (magazzini, scuderie ed adiacenze). Niente di originale, niente di eccentrico ma uniformità, simmetria, semplicità nelle facciate delle ali nobili, appena mosse da quattro paraste binate che salgono al tetto con due piccoli rocchi. Un senso di pacatezza, di austera imponenza, di grandiosità emana da tutto il complesso.
L’interno è senz’altro più elegante e festoso. Il primo approccio è con il grande Salone da ballo, inaugurato nel 1865, al ritorno dal viaggio di nozze del conte Francesco a Vienna, dove aveva alloggiato a corte, ospite dell’Imperatore: le pareti dei due ripiani decorate a grandi riquadri con figure a tempera ed ornati nelle nicchie con motivi floreali, una loggia come trapunta a merletto ed un soffitto di rara fattura (opera di Giacomo Casa), aperto su un cielo intensamente luminoso, in cui campeggiano alcune divinità ed, in posizione centrale, la Musica, in un trionfo di fiori, di vergini, di coribanti “rapiti dall’estro dei venti”.
Dopo la stupenda visione della Sala da ballo, le altre stanze adiacenti, pur curate e decorate, destano minor interesse, eccezion fatta per l’incredibile Scalone di accesso al piano superiore, un vero capolavoro del Meduna, che, allo scopo di ridurre la consistenza del vano-scale, s’inventa una nuova fonte di luce, sfondando una parete (ridotta ad una loggia sorretta da colonnato) e rendendo l’architettura molto più lieve ed aerea. Naturale il richiamo alla Scala del “bovolo” di palazzo Contarini di Venezia ed al soffitto a ventaglio della Fenice, da lui stesso restaurata.
Di sorpresa in sorpresa, sempre il Meduna ci regala nell’immediata adiacenza un’elegantissima Scuderia, con 12 “stalli” per lato, suddivisi da colonne di ghisa scanalate con capitello floreale. Ogni stallo, separato da paratie di legno, è dotato di greppie a canestro e di sottostanti vasche d’acqua di marmo rosso, sorrette da mensole, e riporta in alto, bene in evidenza, il cartiglio con il nome di ciascun cavallo. Una residenza sontuosa per gli amatissimi cavalli del conte Francesco, in perfetto stile “liberty”, perché, e questo fu un puntiglio dell’architetto, anche la scuderia doveva essere adeguata agli altri edifici.
Il Parco romantico
Il progetto del conte Francesco prevedeva in particolare un nuovo parco all’inglese, secondo la moda romantica proveniente dal nord Europa, un parco con abbondanza di vegetazione e di acque, tra boschetti, radure e laghetti. Furono interessati diversi prestigiosi architetti, dal Meduna, al Bagnara, a Marc Guignon e da ultimo a Caregaro Negrin, che operarono dal 1852 al 1865.
Il risultato è spettacolare e suggestivo: specchi d’acqua su cui si riflette la facciata interna della Villa, percorsi serpeggianti tra rialzi di terreno ed avvallamenti, bordi frastagliati del lago, isolette collegate da ponticelli di ferro, imponenti piante secolari sia autoctone che esotiche (un migliaio di alberi), ad ogni passo squarci di luce, colori, riflessi sull’acqua. Insomma, una delle più felici realizzazioni di giardino romantico, impreziosita da una singolare Serra dal profilo arcuato, di stile moresco, collocata da Caregaro Negrin su un’isoletta di fronte alla Villa, e conclusa splendidamente, sullo sfondo verso nord, da un verde anfiteatro, denominato la Cavallerizza. Fu ideata da Marc Guignon perché il conte Francesco potesse sfrenare nella corsa i suoi cavalli in una serie di piste concentriche. A dare solennità e prestigio all’anfiteatro una serie di 52 statue collocate su alti plinti, opere dello scultore Orazio Marinali e della sua bottega, recuperate dal precedente giardino. Il compendio, che costituisce ancor oggi il “cuore verde” della città di Castelfranco, è stato donato dall’ultima proprietaria, contessa Bolasco, all’Università di Padova, che ha curato il restauro di parte della Villa e del Parco.