Non bastava la disfatta di Valeggio di 15 giorni prima, nella guerra “europea” per la successione al ducato di Mantova, ci mancava la venuta a Venezia, l’8 giugno 1630, del marchese De Strigis, l’ambasciatore di Carlo I di Gonzaga-Nevers, a portare la peste di manzoniana memoria in città
Un uomo di riguardo, che non si poteva isolare nel Lazzaretto, se mai confinare nell’isola di san Clemente. Invano, perché il virus si diffuse rapidamente in città. Incredulo ed atterrito, il governo della Serenissima redarguì il protomedico del Magistrato alla Sanità, che voleva proclamare lo stato di emergenza, accusandolo di “proferire concetti pregiuditiali a negotii et al commercio pubblico et privato et alla libertà della patria”, e quindi fece appello ad un congresso di 36 emeriti professori di medicina, pronti a dichiarare sotto giuramento che a Venezia non vi era né peste né pericolo di peste.
Così si favorì la diffusione dell’epidemia, che, se a luglio ed agosto causò solo 48 morti, esplose nei mesi autunnali: 1.168 i morti a settembre, 2.121 ad ottobre, 14.465 a novembre. Ed alla fine si portò via un quarto della popolazione.
Desolazione e morte a Venezia
I benestanti erano fuggiti da Venezia (170.000 abitanti) alla fine dell’estate, ma gli altri erano rimasti in preda alla disperazione, come descrive il medico Alvise Zen: “Nulla più curando la vita, stavano rinchiusi per terrore nelle proprie case. Nessuno più voleva seppellire i cadaveri ammonticchiati fuori delle case o gettati dalle finestre nei canali o sulle imbarcazioni. Solo un grido riecheggiava: «Chi ga morti in casa, li buta zoso in barca!»”.
Eppure il governo veneziano, forte dell’esperienza delle precedenti epidemie, aveva messo in atto, dopo le iniziali incertezze, le misure utili a contrastare il morbo e che al tempo erano di avanguardia: la quarantena delle navi nell’isola della Vigna murata e l’igienizzazione delle merci, i due lazzaretti, per la cura e per la prevenzione, i medici della peste, avvolti in grandi tuniche cerate e con le maschere “a becco d’avvoltoio”, i delegati del Magistrato della Sanità, che controllavano il rispetto del coprifuoco, la chiusura dei luoghi pubblici, il divieto di assembramenti e di vendita di alimenti pericolosi, mentre su una nave era pronta la forca per i trasgressori.
Anche la popolazione cercava di proteggersi con i rimedi del tempo: chiudere le finestre con tele cerate, bruciare legni aromatici (ginepro, frassino, cipresso) per depurare l’aria, sanificare con aceto ed acqua di rose, disinfettarsi con le proprie urine, curarsi con i preparati degli speziali (la Teriaca in particolare).
E si ricorreva alle protezioni celesti. Nel sotoportego della Corte nova, trasformato in una cappella votiva, c’era il ritratto della Vergine, opera di una certa Giovanna, che l’avrebbe dipinta come le era apparsa in sogno per assicurarle che la peste non avrebbe mai varcato quella soglia. E così fu. Dalla devozione alla superstizione il passo è breve: proprio davanti a quell’immagine si dice sia precipitato il morbo della peste ed abbia colorato una pietra di rosso, che ancor oggi si chiama “pietra della peste” e viene evitata con cura dai passanti, perché porterebbe sfortuna.
La Basilica votiva
Ma la devozione non era solo un fatto privato, per la Serenissima da sempre era un fatto di stato, come da ultimo era stato confermato, in occasione dell’epidemia del 1575-1576, con il voto di costruire la chiesa del Redentore, inaugurata poco più di trent’anni prima.
Proprio nel bel mezzo dell’infuriare della peste, il 22 ottobre 1630, il Senato decise di affidarsi alla Vergine. Ed il doge Niccolò Contarini il 26 ottobre, al termine di una santa Messa a San Marco, rivolse alla Madonna questa supplica: “Vergine madre, se nel To nome ze sta fondà ‘sta Patria nostra… ‘scolta ‘sta nostra inplorassiόn. Prega par nu el Divin to Fìo… che’l para via ‘sto tremendo mal che ne rosega le vene, che copa tanta zente… conténtite de ‘sto umile dono de un Tempio, indove che li nostri fiòli e li fiòli de li so fiòli tuti li ani li vegnarà a ringrasiarte”.
C’è tutto nella supplica del Doge: la motivazione della dedica a Maria, perché si riteneva che Venezia fosse nata il giorno dell’Annunciazione (25 marzo 421), e la solenne promessa di una devozione che avrebbe attraversato i secoli. Al culto del Redentore subentra quello mariano rappresentato dalla forza della Vergine, riconosciuta come il rifugio più valido nell’infuriare del morbo. Maria diventa la Stella maris.
Per il nuovo tempio votivo fu scelto un sito strategico tra il Canal Grande, il Canal della Giudecca ed il bacino di San Marco. Su questa scenografia adattò il suo progetto vincente Baldassarre Longhena, “una rotonda macchina che mai s’è veduta né mai inventata”.
Non ebbe modo di assistere alla posa della prima pietra (I aprile 1631) il quasi ottuagenario Niccolò Contarini. Nel bel mezzo di un’ultima recrudescenza dell’epidemia, il nuovo doge, Francesco Erizzo, confermò il voto e l’inizio dei lavori. Purtroppo l’imponente impegno architettonico (110.000 pali solo per formare la base dell’edificio) imponeva tempi lunghi, così, negli stessi giorni in cui si decretava la fine della peste, il Senato fece costruire una chiesa provvisoria in legno e indisse una solenne processione (28 novembre 1631) con la piazza San Marco addobbata di drappi ed arazzi. Quella processione ripetuta nel corso dei secoli diventò la festa della Madonna della Salute (21 novembre – presentazione di Maria al tempio), una festa intima e ricca di emozione per i veneziani, un momento di culto condiviso per tutta la terraferma.