Nuova serie a cura del prof. Lorenzo Morao, seconda parte
Venezia è ancora tutta negli occhi e nella mente di Caspar Goethe, con i suoi colori, le sue musiche, con il suo incanto, il 3 marzo 1740, quando decide di lasciarla e proseguire il viaggio verso Roma e Napoli, le vere mete del suo itinerario. Procede piuttosto di fretta, continuando con quel tono di biasimo, velato da un tocco di ironia, verso certi malcostumi italici, ma sempre ammirato nei riguardi di una civiltà che si è espressa a livelli così alti di arte e di cultura.
Ha appena il tempo per notare con rammarico la sporcizia accumulata sotto i portici di Padova (responsabili quegli “empi studenti”), per un occasionale incontro con un nobile di Rovigo, raccoglitore di pietre antiche con iscrizioni, e per fare un giro nel ghetto di Ferrara, dove gli ebrei “sono obbligati a portare un cappello rosso. E benché sia proibito famigliarizzarsi con essi, arriva però non raramente il contrario”.
Trova così modo di stupirsi di come “questa povera gente restasse ostinata nella sua credenza”. Caspar non si dimostra sensibile, come invece sarà il figlio Wolfang, verso le tristi condizioni degli ebrei, nemmeno di quelli del quartiere ebraico di Francoforte, lo Judengasse. Ma si accorge che gli ebrei italiani erano meno emarginati.
Città da gustare
Attento come sempre agli usi ed ai costumi della gente, una volta entrato nello Stato Pontificio senza subire controlli né personali né sui suoi bauli, vuole saggiare la fama della cucina bolognese: “Da due giorni in qua godo veramente delle delizie grasse di Bologna, che tiene il nome della grassa con giustizia, perché si può star a tavola colla bocca ben ingrassata… Nella mia osteria ve n’erano due tavole: una preparata alla francese o italiana, l’altra alla tedesca. Di rado i tedeschi amano le cipolle, l’aglio e simile roba, che all’incontro è il mantenimento degli altri, perciò ognuno potrà scegliere ove più lo aggrada”.
Ma scendendo lungo il litorale adriatico è tutta una goduria di cibi e di sapori: “Nella città di Pesaro due cose hanno un merito particolare, cioè i fichi e la cioccolata, che è gustosissima. Poi le olive sono ammirabili; e la miglior carne di poco valore, laonde è forse accaduto che vi è qui entro una gran quantità di preti e di abati, come non si vede a proporzione in altri luoghi d’Italia”.
I poveri del santuario di Loreto
Caspar sta godendo il buon vivere italico, ma non si risparmia una punta di sarcasmo nell’accostare, con malizia luterana, la buona cucina marchigiana alla presenza di tanti uomini di chiesa. Un sarcasmo che diventa dispetto nel ricordare di Loreto solo l’insolenza dei poveri, che “con impetuosità gridano carità per amor della Beata Vergine Maria”. S’intenerisce invece per “un fanciullo povero che s’offre di far in mio nome il giro intorno alla Casa Santa in ginocchio per qualche carità e quante volte che volevo”. La scena appare a Caspar “una bella scena”, ma resta deluso dal comportamento del ragazzo, che, non appena girato l’angolo, “si drizza in piedi. Lo chiamo, ricordando il nostro patto ed in un subito si getta a terra, poi replica ancora alcune fiate il giro ed alfin viene da me ricompensato”. Il che gli offre l’occasione per un altro sarcastico commento: “Non è questo burlarsi delle cose reputate sante? E pur lo fanno, in dispetto della propria religione”.
Le meraviglie del golfo di Napoli
Dopo essersi ancora una volta lamentato degli inganni dei vetturini, transita nei pressi di Roma per puntare decisamente su Napoli, anche se al confine deve fare i conti con gli sbirri: “Gente odiosa, che hanno domandato i nostri passaporti, chiedendo insieme una buona mano; dal che conchiudemmo che eravamo per entrare nel Regno di Napoli”.
Giunti sulla costa nei pressi di Mola (l’attuale Formia), Caspar ed i suoi accompagnatori scorgono ad occhio nudo Gaeta, “rinomatissima e bellissima fortezza della natura e dell’arte” e diventano “ansiosissimi di vederla… a qual si voglia prezzo”. E, benché il mare sia burrascoso, si mettono in barca in mezzo ad onde sempre più “furiose e veementi”. I marinai innalzano l’unica vela, ma il vento “scapestrato vi dà dentro con tanta forza che la barca si volta sino a far acqua… e comincia ad ascendere ed a discendere con indicibile velocità”. Per fortuna un po’ alla volta tutto si acqueta.
Ed è subito Napoli, “una gran meraviglia” per Caspar, che ne trae “un’impressione incancellabile per tutta la vita”, testimonia il figlio Wolfang. Passa in sottordine anche l’ennesima “coglioneria” perpetrata dagli sbirri della città, “doganieri” che “si presentano con la solita canzonetta” e, “in considerazione della nostra nobile condizione”, vorrebbero barattare il mancato controllo dei bauli al seguito “con una proporzionata ricompensa”. Niente di nuovo sotto il sole.
Sono i primi di aprile e la primavera splende su tutta la costiera. Caspar prende nota in particolare di alcuni fatti di costume e di ambienti naturali che hanno dello stupefacente.
“Vi è a canto del mare una montagna impraticabile, che impedisce la corrispondenza tra Pozzuoli e Baja; per farvi una comunicazione, l’imperatore (Carlo VI d’Asburgo, anche re di Napoli) ordinò forarvi una strada con grandissimo lavoro per la montagna, detta oggi le Cento Stufe, per esservi altrettanti scaglioni dal piede sino alla cima. Si sale sempre coperti dal monte, o a cavallo o a piedi; ad una banda si trovano degli spiragli che vi fanno bastevol lume. Un poco in su, fuor della strada, è un pozzo di acqua bollente”. Le Cento Sufe sono le “Cento Camerelle”, siamo ai Campi Flegrei, tappa obbligata ai tempi del Grand Tour, come testimoniano i nomi dei visitatori scritti in carboncino, fra cui quello scritto nel 1737 da Allan Ramsey, ritrattista ufficiale della famiglia reale di Edimburgo.
Anche lì trovano dei contadini pronti ad offrire a pagamento vino, pane ed uova od a guidarli dentro ai cunicoli sotterranei, da cui si usciva, “come bagnati dall’acqua calda”. Un po’ più garbati dei “truffatori” del Vesuvio, “uomini di assai robusta e fiera ciera”, che forzavano ad accettare i loro servizi a pagamento nella salita al monte.
Ma la novità assoluta è la visita alle rovine di Ercolano, scoperte solo due anni prima: “Fummo accompagnati da una guardia; ci vennero incontro alcuni lavoranti con torce accese, ufficiosissimi quando odorano una buona mancia… Trovammo molta gente occupata in cavar terra e pietre e trasportarle fuori, per scoprire poi le case, le stanze, le strade, i templi, sì che si posson vedere le muraglie pinte rusticamente di due colori, bigio e rosso, con varie figure, d’un gusto etnico e bizzarro… Rappresentazioni che provano l’eccellenza dell’intrapresa, che non solo appagherà la curiosità, ma darà gran lume alla storia di quei tempi”.
E lo afferma con orgoglio e sicurezza in tempi in cui molti non volevano “dar fede a quella scoperta istorica”.