Uno dei tratti autostradali più trafficati d’Italia è la Roma-Napoli. A chi avesse voglia, a circa metà del percorso, di fare una puntatina esplorativa in questa zona così ricca di memorie storiche ed archeologiche, consiglieremmo di uscire a Frosinone e di puntare verso il mare sulla SS 156. Ma arrivati a Priverno, anziché proseguire verso Latina, prendere una deviazione locale che aggira il colle su cui sorge la città, e si ferma sul margine della Pianura Pontina, dove ancora oggi sorge la superba Abbazia di Fossanova.
Sembra che fosse fondata già nel lontano VI secolo dai monaci dell’Ordine di San Benedetto sopra i resti di una villa romana; sarebbe cioè quasi contemporanea con Montecassino. Di quei secoli bui, però sono rimaste poche tracce. Bisogna considerare che all’inizio del medioevo la Pianura Pontina cominciò a impaludarsi ed a spopolarsi sempre di più. La ricca città di Privernum, che giaceva in pianura come mostrano ancor oggi le sue rovine, venne abbandonata e ricostruita in cima a un più salubre colle, dove sorge ancora oggi. È quindi probabile che all’abbazia benedettina sia toccata una sorte analoga.
Sappiamo con certezza che nel 1134 Papa Innocenzo II la diede a dei monaci borgognoni guidati da San Bernardo di Chiaravalle, i quali erano legati alle rigidissime regole scaturite dalla riforma di Citeaux nel 1098. Costoro si misero subito al lavoro scavando dei canali e delle fosse per bonificare le paludi, e da qui sarebbe derivato il nome dell’abbazia. Questi lavori li tennero occupati un buon mezzo secolo, così che solo nel 1198 incominciarono con la costruzione della chiesa abbaziale che si ammira ancora oggi e che costituisce il più antico esempio di arte gotica cistercense in Italia. Papa Innocenzo III venne di persona a consacrarne l’altare maggiore il 10 giugno 1208, cioè esattamente 811 anni fa.
La grande basilica è costruita a croce latina con la pietra calcarea di Sermoneta in una semplice e severa struttura che riflette la purezza della regola cistercense: l’unico abbellimento è costitutito dal rosone della facciata e da un piccolo mosaico sopra l’ingresso. L’interno è completamente spoglio e mostra solo un maestoso seguito di archi ogivali di pietra scabra. Quando il sottoscritto lo ha visitato, vi ha trovato al lavoro alcuni operai e chiacchierando con loro, gli ha raccomandato scherzosamente di non dar fuoco all’edificio, com’era da poco era successo con Nôtre Dame; e loro hanno risposto facendo notare che non c’era nulla lì dentro che potesse bruciare.
Come nella tradizione cistercense, il campanile è costruito sopra il transetto al posto della cupola ed è molto elegante. Il suo tipico profilo si ammira in lontananza da diversi angoli della Pianura Pontina. Tipicamente cistercense è pure il chiostro, abbastanza ben conservato, con la grande fontana e con il refettorio, la sala delle riunioni invernali e la sala capitolare. Ma l’ambiente assolutamente particolare dell’abbazia è la „stanza del trapasso“, vale a dire la piccola stanzetta della dove il 7 marzo 1274 passò a miglior vita nientemeno che San Tommaso d’Aquino, il sommo teologo della chiesa cattolica.
Si era messo in viaggio da Napoli verso Lione per partecipare al concilio ecumenico (si trattava del secondo concilio di Lione, per la precisione) che vi era stato convocato da papa Gregorio X al vano scopo di riconciliarsi con la Chiesa Ortodossa. Ma lungo la strada, che percorreva a dorso di mula, l’aquinate aveva fatto tappa nella città-fortezza di Maenza per far visita ad una sua cugina. Il dottore della Chiesa era un rampollo di una delle più potenti famiglie feudali della zona. A Maenza aveva cominciato a sentirsi male, ma si era ripreso e rimesso in viaggio. Ma poi venne colto da un secondo attacco, molto più forte del primo, e si fece ricoverare a Fossanova. La spoglia stanzetta in cui morì giacendo sul nudo pavimento, secondo l’uso francescano, si può visitare ancora oggi.
Quando S. Tommaso venne a mancare, Dante era ancora un bambino di 9 anni, mancavano meno di due mesi al suo incontro con Beatrice, e forse per questa coincidenza di date ne fece l’incarnazione della teologia.
Nella Divina Commedia attribuirà poi la colpa della morte di S. Tommaso ad un complotto del re angioino: „Carlo venne in Italia, e per ammenda / Vittima fe’ di Corradino; e poi / Ripinse in ciel Tommaso per ammenda!“ (Purg. XX, 67-69).
E nel „Nome della Rosa“ Umberto Eco fa dell’ironia sul fatto che il cadavere di San Tommaso fosse così grasso che era difficilissimo trasportarlo per le scalette -effettivamente assai anguste- che collegano la sua cella con il chiostro. Ed in realtà, cosa ne sia stato della sua sepoltura, non è stato finora chiarito.