Per il settimo centenario della morte del sommo poeta Dante Alighieri
“Quanto a poesia, queste terzine sono terra bruciata” sentenziò con disprezzo un relatore di scuola crociana riferendosi all’inizio del secondo canto del Purgatorio: Già era il sole all’orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio coverchia / Jerusalem col suo più alto punto (Purg. II , 1-3). A quell’epoca esistevano ancora cattedratici fedeli all’estetica di Benedetto Croce. Correvano gli anni ‘70, ed io frequentavo tutte le domeniche mattina la Lectura Dantis nella Casa di Dante a Roma, Piazza Sonnino. Le frequentavo perché m’interessava Dante, e non don Benedetto, di cui potevo fare volentieri a meno. Il sommo poeta aveva un intelletto incomparabilmente più grande del suo, ed al contrario di lui, spaziava in tutti i campi dello scibile umano.
L’astronomia non appassionava solo Dante. Innumerevoli sono gli appassionati che hanno passato intere notti ad osservare le stelle, dilettanti che con i loro strumenti hanno fatto anche scoperte importanti. Ma anche senza strumenti a disposizione: le riviste specializzate ed i libri di astronomia e cosmologia hanno una tiratura ben maggiore di quelli dedicati alla poesia. Non dimentichiamoci che un altro grande spirito, il Leopardi da giovane ha scritto un trattatello di astronomia, su un argomento cioè, che è rigidamente escluso dall’estetica crociana. Perciò da questo articolo noi escluderemo tutte le considerazioni di tipo estetico-letterario, che non c’interessano.
Ad esempio, prendiamo in considerazione il solenne inizio del Paradiso che, dopo le dodici terzine del proemio, è interamente rivolto allo spazio cosmico, ed introduce pure uno di quegli indovinelli geometrici che vengono pubblicati nelle riviste scientifiche come „Le Scienze“: Surge a’ mortali per diverse foci / la lucerna del mondo, ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci (Par. I, 37-39). Quindi la visione cosmica si dilata fino al punto di evocare in noi l’inquadratura iniziale di „2001: odissea nello spazio“: Fatto avea di là mane e di qua sera / tal foce, e quasi tutto era là bianco / quello emisperio, e l’altra parte nera…
A questo punto c’imbattiamo in enigma: come mai, se il Paradiso incomincia all’alba, il Purgatorio invece termina a mezzogiorno in punto? E più corusco, e con più lenti passi / teneva il sole il cerchio di merigge / che qua e là, come li aspetti, fassi (Purg. XXIII, 103-105). C’è un buco di 18 ore fra le due cantiche? Come si spiega, questa contraddizione? Beatrice gli dichiara che non è trascorso neppure un attimo da quando egli è ritornato dalla „santissima onda“ dell’Eunoè. La differenza di tempo è dovuta solo alla prospettiva: osservato dall’Eden, il sole stava allo zenit, mentre adesso lo sta osservando nel suo moto ascensionale nello spazio. È come un astronauta che, partendo a mezzogiorno da Cape Kennedy o da Baykonur, dopo pochi minuti si trova a rimirare il pianeta sotto di sé in parte illuminato e in parte in ombra.
Dopo la trionfale ascesa nel segno dei Gemelli, Beatrice invita Dante a guardare in giù per rendersi conto della struttura generale dell’universo: il che oggi sarebbe una pacchia per ogni esperto di cosmologia. Ed infatti Dante segue subito l’invito, e qui fa una rilevante scoperta: L’aspetto del tuo nato, Iperione /quindi sostenni, e vidi com’ si move / circa e vicino lui, Maia e Dione (Par. XXII, 142-144). I tre pianeti che lui guarda muoversi dall’alto, sono il Sole (figlio d’Iperione), Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di Dione): fin qui tutto chiaro. Ma quello su cui appuntiamo l’attenzione sono i due avverbi di luogo: circa e vicino. In italiano moderno circa significa „approssimativamente“, „all’incirca“, ma Dante lo usa esclusivamente nel senso originale latino di „intorno“. Dunque, tradotta in italiano moderno, la terzina si leggerebbe: „Quindi sopportai la vista del sole, e vidi come si muovono intorno e vicino a lui, Mercurio e Venere“.
Ma questa è un’enormità! Infatti nel sistema tolemaico tutti i pianeti si muovono intorno alla Terra e non intorno al Sole, e lo fanno ciascuno dentro una propria sfera indipendente e concentrica con le altre, detta anche „epiciclo“. Dante lo nomina proprio nel cielo di Venere, però insieme alle credenze sbagliate dell’antichità: Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella ciprigna il folle amore / raggiasse, volta nel terzo epiciclo (Par. VIII, 1-3). È vero che nel „Convivio“ Dante dichiara inequivocabilmente la sua adesione a Tolomeo, ma anche quella terzina è inequivocabile. Non sarebbe nemmeno l’unica volta che Dante contraddice le opinioni date per certe nel „Convivio“: ad esempio le gerarchie angeliche le descrive secondo l’ordine dato da San Gregorio Magno nel „Convivio“ (e come sono raffigurate nella volta a mosaico del battistero di Firenze), mentre nel „Paradiso“ si ricrede, e tramite Beatrice „a cui fallar non lice“ dichiara per vero l’ordine dato da Dionigi l’Areopagita, tanto da far ridere di sé stesso il povero Gregorio (Par. XXVII, 133- 135). Non solo, ma c’è un altro passo (Par. VII, 10-12) in cui si parla del movimento del pianeta Venere: e da costei, ond’io principio piglio / pigliavano il vocabol della stella / che ‘l sol vagheggia or da coppa, or da ciglio. Il Sole (e non Venere) sulle immagini dell’epoca veniva rappresentato come una testa con il viso rivolto sempre verso la terra; però se Venere può guardare il Sole ora dalla nuca (da coppa) ora di faccia (da ciglio), deve necessariamente girargli intorno.
Quando, tre secoli dopo, Galileo scrisse il suo storico „Dialogo sui massimi sistemi“ egli intendeva contrassegnare così il sistema tolemaico e quello copernicano. Ma in realtà esisteva anche una specie di „sistema minore“, ed era il sistema ticoniano, escogitato dall’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601). In esso solo i due astri maggiori, cioè il Sole e la Luna, ruotano direttamente attorno alla Terra su orbite proprie, e tutti gli altri pianeti ruotano intorno al Sole, che se li trascina appresso nel suo moto orbitale intorno alla Terra, che rimane al centro del cosmo. Però i raggi delle orbite di Mercurio e Venere sono più corti di quello dell’orbita solare, e quindi talvolta il Sole viene a trovarsi fra essi e la Terra, mentre quelli di Marte, Giove e Saturno sono più lunghi, e quindi ne restano sempre all’esterno. Naturalmente Dante non poteva conoscere questo sistema; avrebbe però potuto preconizzarlo? Di ingegno ne aveva a sufficienza, come dimostra tutta la straordinaria architettura unoversale dei tre mondi dell’aldilà, che è una sua creazione originale sua.
Comunque già nell’antichità classica c’erano autori assai importanti che contraddicevano a Tolomeo, e Dante doveva conoscerli. Il più famoso di tutti era Vitruvio, e il suo trattato „De Architectura“ era notissimo nel medioevo, se ne conoscono codici dell’ottavo e del nono secolo, ed a Firenze, nella Biblioteca Laurenziana, se ne conserva uno del tredicesimo secolo. Ebbene, nel nono libro dell’Architettura, Vitruvio dichiara inequivocabilmente che Mercurii ac Veneris stellae circum Solis radios Solem ipsum uti centrum itineribus coronantes regressus retrorsum et retardationes faciunt: etiam stationibus propter quam circinationem morantur in spatiis signorum. Un altro testo celeberrimo nel medioevo era il „Somnium Scipionis“ di Cicerone che spesso era accompagnato da un commento di Macrobio. Nel sogno di Scipione Cicerone racconta che il celebre condottiero si sarebbe trovato in un luogo circondato di stelle, dall’alto del quale poteva scorgere la Terra ed i pianeti come puntolini insignificanti. Dante se n’è chiaramente ispirato: Col viso ritornai per tutte quante / le sette spere, e vidi questo globo / tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante (Par. XXII, 133- 135). Sembra la Terra osservata dalla sonda spaziale Voyager da oltre l’orbita di Plutone. E Macrobio commenta a Cicerone che Mercurio e Venere, quando percorrono l’arco superiore delle loro orbite, sono situati sopra il Sole, e quando l’arco inferiore sono sotto il Sole. Inoltre esisteva un’opera enciclopedica del quinto secolo „Le nozze della Filologia e Mercurio“ di Marciano Mineo Capella, detto „Marcianus noster“ nel medioevo per la sua popolarità, in cui viene dato per certo che i giri di Mercurio e Venere non avvolgono affatto la Terra, terras omnino non ambiunt, ma hanno il loro centro nel Sole: centrum in sole constituunt.
Non è certo un puro caso che tutte e tre le cantiche terminano con la parola „stelle“, e non con la parola „poesia“, o „umano“, ecc. È strutturalmente evidente che Dante piazza sempre i suoi versi astronomici in posizioni strategiche, per accompagnare lo svolgimento della vicenda salvifica del poema sacro „al quale han posto mano cielo e terra (Par. XXV, 3), in modo che il suo movimento attraverso i tre regni sia sempre coincidente con quello delle sfere celesti. Non si tratta solo di uno spostamento in uno spazio più o meno immaginario: lo scopo finale sembra essere che anche i movimenti dell’anima, le e-mozioni, coincidano alla fine con quelli dei corpi celesti (par. XXXIII, 143-145): ma già volgeva il mio disìo e ‘l velle / sí come rota ch’igualmente è mossa / l’amor che move il sole e l’altre stelle.