Alla fine della breve discesa, che dal Tempio canoviano porta nel paese di Possagno, si entra subito nell’abitato e, senza particolari annunci, varcato un piccolo portone, ci si trova immersi nel mondo dell’artista. Perché qui abita davvero Antonio Canova. Prima di entrare nel “sancta santorum”, meglio soffermarsi nel giardino e nel brolo, prendere confidenza con l’ambiente e poi, attraverso un ampio porticato, entrare nella sua casa, quella che lui stesso ha restaurato, attento a conservare però i tratti della tipica casa veneta, sia all’esterno che all’interno, con arredi originali. È la casa in cui è nato ed ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza con i nonni, in seguito alla morte precoce del padre ed alle seconde nozze della madre, passata ad abitare in un altro paese con il secondo marito.
Davvero umili le origini, che sanno di semplicità di vita e di rapporti familiari genuini. Qui sono custodite le memorie della vita dell’artista, gli oggetti personali, i vestiti per le grandi occasioni, gli strumenti di lavoro, nonché le incisioni ed i dipinti, perché proprio nella Torretta, il luogo più elevato della casa, si ritirava a dipingere.
E questa predilezione per la sua casetta, dove si rifugiava quando a Roma la vita si faceva difficile (occupazione napoleonica) o per riposarsi dai lunghi viaggi a Parigi, a Londra od a Vienna, dice molto della personalità dell’artista, ospite conteso nei salotti aristocratici di Venezia e di Roma e nelle più prestigiose Corti europee.
Ma l’interesse del visitatore diventa stupore e meraviglia, non appena si trova all’ingresso della Gypsoteca, che raccoglie in un candido bagliore i busti, le statue, i bassorilievi, in gesso e in marmo (oltre un centinaio di opere d’arte), trasferite dal fratello, mons. Sartori, dal grande studio romano a questo edificio appositamente costruito. Il colpo d’occhio è eccezionale: c’è tutta la grandiosità, il vigore, l’eleganza, la grazia, la leggiadria, la voluttà dell’arte classica, a cui il Canova riesce a dare nuova vitalità e nuova personificazione. Come è stato detto, “sembra un Olimpo che attenda il ritorno del genio creatore che gli ha dato vita”.
Non si tratta infatti di modellini o bozzetti in gesso od in creta da cui creare poi la statua in marmo in dimensione reale, ma di modelli veri e propri uguali alla statua finale, secondo una tecnica, già usata dagli antichi ma perfezionata da Canova, che prevedeva una complessa elaborazione: dal disegno al bozzetto in creta alla statua in argilla, ricoperta poi di gesso e svuotata dell’argilla, completata infine come statua e levigata per costituire il prototipo da trasformare in marmo. Per l’ultimo passaggio, una serie di chiodini di bronzo, le rèpere, posti nei punti-chiave della superficie in gesso, servivano a trasferire le esatte proporzioni, con compassi e pantografi, nella statua di marmo. E poteva capitare che da un modello in gesso venissero create più statue di marmo, che venivano numerate.
Per tutto questo serviva una “bottega” di validi ed esperti artigiani che, sulla base del progetto iniziale, curavano le fasi di sgrezzatura e di abbozzo dei materiali, per riservare all’artista l’intervento finale di “finitezza”, con l’uso di raspe, trapani, pietra pomice, paglia, cere anche colorate, per quell’“ultima mano” a cui di solito Canova si dedicava, in una camera appartata, di notte, al lume di candela, per studiare il gioco delle luci e delle ombre.
Era un’autentica fabbrica di bellezza. Perché la ricerca della bellezza fu la sua sfida costante. Si ispirava all’arte dei classici, senza copiarli, ma inventando una propria forma di bellezza, “avendo sempre sott’occhio la bella natura”.
Basta soffermare lo sguardo sulla statua di Ebe, che si libra nello spazio, immagine fresca e luminosa della delicatezza e della fragilità umana, o sulle statue di Venere ed Adone, che vivono della femminilità leggera e delicata della dea, abbandonata in un movimento sensuale verso il suo amato, o su quelle di Amore e Psyche stanti, espressione della dolcezza e del fascino discreto dell’amore.
Perché, secondo l’ideale platonico a cui Canova si ispirava, l’amore è desiderio di bellezza, di quella Bellezza suprema che coincide con il Bene e con il Vero. Anche se l’amore terreno ha sempre un potere di attrazione irresistibile, al punto che l’artista, sulle orme di Fidia, riesce a far diventare “vera carne” anche una materia fredda ed inerte come il marmo. E fascino carnale è quello che emana Paolina Bonaparte, mollemente distesa su di un letto greco, perfetta immagine di bellezza umana e sensuale, nonostante il volto idealizzato, o quello che esprime la Venere che esce dal bagno, anche se più pudica e delicata nella connotazione erotica.
Ma è davanti al gruppo delle Grazie che si ha la sensazione di trovarsi di fronte all’apoteosi della bellezza: dopo aver contemplato l’immagine frontale di quei volti amorosi e sorridenti, si deve girare attorno a loro per cogliere l’intreccio e l’armonia delle forme e dei gesti, il gioco dei movimenti e degli sguardi, la raffinatezza delle mani e dei piedi. Sono l’espressione più vera ed autentica di tutto quello che Canova amava rappresentare: pur essendo più donne che dee, esprimono l’armonia, l’equilibrio, la purezza, la soavità, proprie delle divinità che hanno il compito di portare tra gli uomini il conforto delle arti belle.
Si spiega come alcuni poeti e scrittori, tra cui Flaubert e Foscolo, davanti ad alcuni capolavori dell’artista, si siano fatti prendere dall’impulso di accarezzare e baciare la figura femminile, “consapevoli di baciare la bellezza stessa”. Una bellezza in grado di salvare il mondo.
Così, “anche senza guardare il resto della galleria”, come fece Flaubert nel 1845, sopraffatti da tanta bellezza, ci piace lasciare quell’Olimpo, con la sensazione che basti un soffio perché quei personaggi, immortalati nel gesso o nel marmo, tornino a vivere.