Non si può parlare di diritto, senza addentrarsi in uno dei principi fondamentali del diritto stesso, vale a dire: l’eguaglianza. Un principio che, a partire dallo spirito repubblicano che ha portato alla rivoluzione francese, ha le sue origini profonde nell’illuminismo, nei trattati di filosofi come Kant oppure Rousseau.
Perché, in fondo, siamo portati a enfatizzare questo principio? Perché, in fondo, siamo uguali quando si parla di diritto?
Fisicamente, biologicamente e – ancor di più – caratterialmente siamo unici al mondo. Ognuno di noi è diverso dall’altro, proprio come ogni nuvola in cielo è diversa dall’altra. Eppure, qualcosa ci spinge ad affermare che senza eguaglianza un ordinamento giuridico non sarebbe „giusto“, ma, piuttosto, discriminante, non idoneo a garantiere una „giusta“ sentenza oppure – in generale – una giustizia sociale.
Per capire la legittimità del principio di eguaglianza, bisogna partire da un altro fondamento: la dignità. La dignità dell’uomo è quel valore implicito ad ogni persona, un valore naturale che acquistiamo con la nascita e ci preserva un ruolo speciale nell’ordinamento: quello di “soggetto di diritto”.
La dignità umana, infatti, è violata quando lo stato tratta l’individuo come oggetto e, appunto, non come soggetto. La dignità umana non conosce una misura: ha sempre lo stesso valore, indipendentemente dal ruolo sociale che svolge una persona. Un ingegnere ha la stessa dignità di un senzatetto. Una persona con la fedina penale pulita ha la stessa dignità di un pregiudicato, e così via.
La Costituzione italiana, all’articolo 3, stabilisce due principi importanti: in primo luogo, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (cosiddetta eguaglianza formale) e, in secondo luogo, che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (eguaglianza sostanziale).
L’eguaglianza, dunque, sembra essere fondamentalmente legata alla dignità: e, difatti, siamo uguali davanti alla legge proprio perché abbiamo pari dignità.
Eguaglianza davanti alla legge significa che la legge si applica a tutti.
Il principio fu esaurientemente formulato già nel preambolo della Costituzione francese del 3 settembre 1791, laddove si afferma che nel nuovo ordinamento “non c’è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie” ecc. Il principio di eguaglianza, sotto questo profilo, costituisce l’altra faccia del principio della generalità della legge: infatti, l’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti del 1789 aveva stabilito che la legge è “l’espressione della volontà generale”. Essa “deve essere la medesima per tutti, sia che protegga sia che punisca. Tutti i cittadini sono eguali ai suoi occhi”. Motivo per cui le statue che rappresentano la dea della giustizia sono sempre bendate: la iustitia dev’essere cieca davanti alle controparti di un qualsivoglia processo. Il che implica, di conseguenza, che sono vietate leggi ad personam, leggi speciali o eccezionali.
Ma l’articolo 3 della Costituzione va oltre all’eguaglianza formale: la realtà dei rapporti materiali, infatti, presenta situazioni di profonda diversità.
È inutile negare l’evidenza: chi nasce in una famiglia ricca, ha più opportunità di chi nasce in una famiglia disagiata e meno abbiente. Ecco perché, la Costituzione, richiede che lo Stato rimuova gli ostacoli che si frappongono al godimento concreto dei diritti da parte di tutti.
Un principio questo, che suona come una chimera ai nostri tempi: ovunque, in Italia, i cittadini si sentono in disagio e, appunto, necessitano dell’aiuto da parte dello Stato per sbarcare il lunario e sopravvivere, giorno per giorno.
È fallito, dunque, lo Stato italiano nella realizzazione dell’eguaglianza sostanziale?
Rispondere a questa domanda nell’ambito di questa rubrica è praticamente impossibile. Lo spazio a disposizione non è sufficiente. Ma, a tal proposito, bisogna constatare che, prima di chiamare all’ordine lo Stato, dobbiamo capire che lo Stato, in fondo, siamo noi cittadini. Non possiamo pretendere uno Stato equo e giusto, se non iniziamo da noi stessi.
Se un imprenditore è disposto a pagare ad un uomo un salario maggiore rispetto ad una donna, se un’azienda non assume uno straniero perché è straniero, se non accettiamo l’inquilino perché è di fede islamica, non possiamo pretendere che lo Stato faccia diversamente.
Le cariche dello Stato, gli impiegati statali, gli insegnanti ecc. – che formano il corpo di uno Stato – non rispettano la Costituzione automaticamente, solo perché indossano una divisa oppure sono responsabili di un ente.
La rispettano solo se hanno sposato in pieno i principi della Costituzione, se la sentono parte del loro pensiero, se ne condividono lo spirito.