Alcune recenti notizie di cronaca italiana, ci parlano purtroppo di delitti messi in atto da giovani verso altri giovani, con una crudeltà che rimane difficile credere. Giovani che deliberatamente tolgono la vita a propri coetanei, con accurata premeditazione ed inflessibile crudeltà, o utilizzando pericolose tecniche di combattimento apprese nelle palestre e vantate sui social. Tutto ciò con grave scandalo della società civile che si interroga su come questo possa accadere, e che reclama giustizia o vendetta. Sociologi, politici, amministratori, psicologi vengono interrogati, si indirizza il pensiero alle famiglie, ad un contesto sociale magari degradato… ma la domanda che sorge è più semplicemente, perché? Perché invece di farti vicino ad una persona molto più felice di te o molto più debole di te, hai infierito su di lei, arrivando a strapparle la vita con violenza? Non possiamo dare una risposta, ma una constatazione: per questi ragazzi la vita dell’altro non ha valore o ha un valore molto basso relativamente alla propria, si ha quindi il diritto di interromperla, di rubarla, di disporne. Questi ragazzi sono i nuovi poveri della nostra società, privati della vicinanza dell’altro dalla realtà artificiale dei social, dall’approvazione spasmodica dei like. Ragazzi che non riescono a sentire l’importanza dell’altro, che non riescono a farsi vicino all’altro, nel bene e nel male.
In ogni epoca i ragazzi ed i giovani sono stati il punto debole di società private delle sicurezze, se pensiamo agli anni del terrorismo, alle periferie delle grandi città subito dopo le guerre mondiali del secolo scorso o, ancora prima, a seguito della rivoluzione industriale.
In questi frangenti sono sempre sorte figure forti, di riferimento, che semplicemente amando questi giovani, vedendo in loro – nonostante tutto – la presenza dello Spirito Santo, sono riusciti a farsi loro vicini, a salvarli dalle strade deserte delle loro anime. Nei nostri giorni volontari o i sacerdoti che si occupano di loro si chiamano proprio volontari o preti di strada: amatissimi, accolti dall’incredulo affetto di chi pensava di non essere degno dell’Amore gratuito di nessuno.
Uno dei più famosi esempi di volontario e, poi, prete di strada è di un’epoca lontana ma incredibilmente attuale, San Filippo Neri.
Fiorentino di nascita nel 1515, proveniente da una famiglia discretamente agiata, di buon carattere, viene educato al collegio domenicano di San Marco a Firenze, apprendendo il misticismo dei frati, ancora animati dall’esempio del confratello Girolamo Savonarola scomparso da poco. Viene destinato a divenire mercante presso uno zio a Cassino ma non riesce a trovare soddisfazione in quello che fa. Si avvia come pellegrino a Roma nel 1534, poco più che diciottenne, sentendosi attratto dal centro della cristianità, viene accolto da un suo compatriota fiorentino, Galeotto Caccia, capo della dogana pontificia, diventando precettore dei suoi figli. In quegli anni frequenta le lezioni di filosofia all’Università della Sapienza, segue le lectio di teologia presso i monaci Agostiniani ma, pur amando i libri, sente ancora il suo destino altrove. Filippo vorrebbe partire per fare il missionario nelle Indie, il continente americano appena scoperto, ma si accorge che proprio la popolazione di Roma ha bisogno della sua opera. All’epoca la città era decadente e pericolosa, contava poco più di trentamila abitanti, ancora risentiva della grave aggressione subita dall’imperatore Carlo V e dalle sue truppe mercenarie protestanti nel 1527, il Sacco di Roma. Scorribande e saccheggi l’avevano gravemente segnata in nove mesi di occupazione, la popolazione aveva subito pesanti violenze ed omicidi di massa. Nella città non c’erano scuole e, abbondando la miseria, ovunque erano torme di ragazzini lasciati a se stessi, giovani sempre affamati affollavano le strade cercando di borseggiare i passanti, di rubare qualcosa da mangiare dai banchi del mercato o di eseguire qualche delitto su commissione.
Filippo vuole farsi vicino a loro, interrompe il suo servizio di precettore ed inizia a vivere come eremita per strada, dormendo sotto i portici delle chiese o in ripari di fortuna. Camminava per i quartieri popolari di Campo de’ Fiori o di Trastevere vestito con una tonaca munita di cappuccio, e spesso incontrava giovani e ragazzi che lo deridevano e si facevano beffe di lui. Queste beffe non erano per lui occasione di sdegno, seppur fosse più colto e di stato sociale più elevato, al contrario erano opportunità di contatto, di raccolta di un grido di aiuto, di un’invocazione nascosta. Filippo non si faceva sfuggire l’occasione e, complice il suo accento “straniero”, si univa a queste comitive conquistandole con la sua simpatia: cominciava con una barzelletta, poi alcuni giochi, poi qualche canzone ed infine la predicazione, sempre improntata ad un messaggio evangelico allegro. Spesso diceva di guardarsi da chi brontolasse sempre: “Voi seguitate il fatto vostro, e state allegramente, altro non voglio da voi che non facciate peccato”. Poteva anche capitare che i ragazzi gli facessero perdere la pazienza ed allora li richiamava fortemente in romanesco ma correggendo il tiro all’ultimo con un auspicio di poter loro ricevere la corona del martirio e la santità: “Te possi morì ammazzato… ppe’ la fede!”. Per provvedere ai suoi ragazzi in tutti i modi possibili non esitava ad essere insistente, non si preoccupava di bussare persino alle porte dei palazzi patrizi per farsi dare un aiuto. Una volta un ricco signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: “Questo è per me – disse sorridendo – e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi”. Dai ragazzi si faceva aiutare nel soccorso dei poveri e dei bisognosi, nel servizio presso gli Ospedali degli Incurabili, con loro partecipava alla vita di alcune confraternite benefiche, soprattutto quella della Trinità dei Pellegrini, presso la chiesetta di San Girolamo della Carità, di cui Filippo contribuì alla fondazione, insieme al suo padre spirituale P. Persiano Rosa. In occasione del Giubileo del 1550, insieme ai confratelli ed ai ragazzi, riuscì nell’impresa di accogliere fino a seicento pellegrini al giorno ed al termine del Giubileo, si rivolse con loro alla cura dei convalescenti, al soccorso dei poveri vergognosi ed alla formazione della dote delle ragazze povere.
Uno zelo fortissimo nell’avvicinare continuamente i bisognosi, a coinvolgerli a loro volta nell’attenzione all’altro, nel lavoro instancabile di assistenza ad altri ancora, perché “Non è tempo di dormire, il Paradiso non è fatto pei poltroni”. In età adulta per l’epoca, a 36 anni, Filippo viene convinto da P. Rosa a diventare sacerdote, viene ordinato diacono in San Giovanni in Laterano il Sabato Santo, per poi ricevere l’ordinazione sacerdotale il 21 Maggio del 1551. Nella sua piccola camera, Filippo adesso può iniziare una fervente opera di confessore: confessava al mattino e faceva tornare i penitenti al pomeriggio per parlare dei loro progressi spirituali. Li teneva quindi con sé a conversare: otto persone, il massimo che poteva tenere la stanzetta, tanto che Filippo di solito si poneva steso sul letto. Si formò così il metodo del “ragionamento”, un colloquio sopra un tema edificante: al principio i discorsi dei fedeli erano liberi, privi di un argomento fissato in principio, quindi, per dar materia regolare alle conversazioni venne introdotto l’uso della lettura del Vangelo di Giovanni e di altri testi laici, di morale di spiritualità, del canto. Ad un certo punto, tale era la partecipazione, che il luogo degli incontri fu trasferito al piano superiore, nella soffitta della chiesa: nel locale dove in precedenza si poneva il grano per produrre farina e pane per i pellegrini, adesso ci si “sfamava” col dialogo reciproco, con la crescita spirituale e fraterna. Tra il 1554 e il 1555 il nuovo locale prese il nome di “Oratorio” e da allora i luoghi cristiani di incontro per i ragazzi ed i giovani, di fraternità, di incontro, di crescita comune, continuano a chiamarsi così.
Non è così comune oggi frequentare gli Oratori, mantenerli, formare i volontari animati da quella gioia evangelica che San Filippo Neri ispirava e che possano farsi vicini, riferimento per i nuovi ragazzi “di strada”.
Questi ragazzi oggi hanno per la maggior parte una casa, hanno di che vestirsi e mangiare, ma sono spesso soli in mezzo alla strada della vita.
Durante il velocissimo processo di canonizzazione, che vede Filippo proclamato Santo nel 1622, venne riscontrato che due sue costole avevano riportato una rilevante deformazione, in virtù della forte dilatazione del cuore compiuta in lui dallo Spirito Santo la notte di Pentecoste del 1544.
Facciamoci ispirare da questo esempio fortissimo, per allargare il nostro cuore, per trasformare la nostra vita in “Oratorio” e farci vicini alle persone che ci lanciano segnali silenziosi di amara solitudine e magari – difficilissimo – di disprezzo. Non temiamo di prendere loro la mano, “Tutto il resto è vanità”.