Con questo articolo inizia una serie di corsivi che riguardano Giovanni Falcone e la sua lotta alla mafia. Gli articoli saranno poi raccolti nel libro “A lezione da Giovanni Falcone”, che l’autore Alessandro Bellardita presenterà in diverse scuole tedesche il prossimo anno
Correva l’anno 1980 quando, poco dopo l’inizio delle indagini sul clan mafioso degli Spatola-Inzerillo, fu deciso di assegnare a Giovanni Falcone la scorta. Su quell’inchiesta, infatti, avevano già lasciato la pelle alcuni esponenti delle forze dell’ordine, tra cui l’abile poliziotto Boris Giuliano ucciso il 21 luglio del ‘79.
La vita blindata di Falcone era un incubo: lo stress della perenne paura che accompagnava il magistrato, l’esistenza convulsa vissuta a fianco di gente armata – insomma, non proprio una vita tranquilla, quella di Falcone, come magari ingenuamente la si immagina da studente quando si iniziano gli studi di giurisprudenza all’università.
Eppure Giovanni Falcone non aveva dubbi: “occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, costi quel che costi, qualunque sia il sacrificio da sopportare, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”. Era questa la “sua” citazione preferita, quella che faceva ripetere ad alta voce ai tirocinanti che iniziavano a lavorare nel suo reparto del Palazzo di Giustizia di Palermo, una frase – come affermò Giuseppe Costanza, suo autista quando due anni fa andai a visitare la stanza di Falcone al Tribunale – che risale ad una citazione di John F. Kennedy e che per Falcone raccoglieva l’essenza del “senso dello Stato”.
Ma cosa intende Giovanni Falcone quando parla di “dovere da compiere fino in fondo”? Falcone era innanzitutto un magistrato consapevole di avere uno “spirito di servizio” (come amava dire) ben al di sopra della media dei colleghi. Il suo “sacrificio” si può ben misurare con l’incredibile volume di lavoro che portò proprio al maxiprocesso nel 1986: una requisitoria di circa 8mila pagine, raccolta in 40 volumi. Giuseppe Ayala, un suo collega e pubblico ministero proprio durante il maxiprocesso, racconta nel suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno”, che Falcone in quegli anni lavorava pressappoco sedici ore al giorno e solo di rado trascorreva le domeniche a casa e ancor più raramente andava a cena con amici o colleghi.
Il suo dovere, difatti, era quello di compiere fino in fondo il suo “sacrificio”, appunto quello di portare a termine le indagini – costi quel che costi. Questo spirito era frutto di quello che lui stesso definiva “senso dello Stato”. Se il dovere di un magistrato è quello di inquisire affinché venga condannato chi ha violato gravemente la legge, è proprio l’osservanza della legge che implica il “senso dello Stato”, soprattutto da parte di chi ha il compito di farla rispettare. Lo Stato, infatti, che fa le leggi, garantisce con l’ordinamento giuridico – con quello che chiamiamo “diritto” – il funzionamento della società. Quella stessa società che, appunto, in quanto democratica, si è data, eleggendo i parlamentari, quelle leggi che i magistrati sono tenuti (insieme alle forze dell’ordine) a fare rispettare. È qui che si chiude il cerchio.
Ma il “senso dello Stato” non deve averlo solo il magistrato, il giudice oppure il poliziotto. Il “senso dello Stato”, in una società civile, dovrebbe appartenere a tutti i cittadini. Avere il “senso dello Stato” vuol dire, infatti, avere ben presente che esistono valori, interessi, idee che non sono quelli di una parte (individuo, partito o chicchessia), bensì quelli dell’insieme, insomma di tutta la società civile, valori raccolti nella Costituzione e nel senso comune (o meglio: di comunità, in ted. Gemeinschaftssinn).
Giovanni Falcone, dopo aver ricevuto la scorta, andò ad abitare in via Notarbartolo, in una casa riconoscibile dalla “garitta” coi vetri antiproiettile, la stessa casa che poi – dopo la strage di Capaci – diventò un simbolo per i palermitani. La macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone non passava inosservata: quattro auto di scorta, le sirene, le sgommate sulle corsie preferenziali e l’elicottero assordante che accompagnava ogni movimento della colonna. Proprio in quel periodo una donna, una certa Patrizia Santoro, si rivolse al “Giornale di Sicilia” con una lettera, definendosi una “onesta cittadina”. La Santoro scrisse: “Tutti i giorni, al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io mi domando: è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte?”.
Ecco, se Giovanni Falcone è stato un esempio di coscienza civile, la lettera della Santoro è un emblema di quello che si può definire l’antitesi del “senso dello Stato”. Ogni qualvolta si ritiene che l’interesse privato (che può essere il silenzio, la quiete, lo spettacolo televisivo, il proprio piacere, il proprio godimento, le proprie quattro mura) sia più importante rispetto, ad esempio, alla lotta alla mafia e, dunque, agli interessi impellenti di una società, la coscienza civile (o il “senso dello Stato”) viene calpestato.
Forse è proprio per questo che Giovanni Falcone, in un’intervista per la RAI nel 1991, pochi mesi prima della strage di Capaci, sostenne che “la mafia è un fenomeno indegno di una società civile”. Era cosciente del fatto che per sconfiggere la mafia serve una coscienza civile, serve un profondo “senso dello Stato”.