Goethe e la pasta
I costumi alimentari italiani secondo i viaggiatori del Grand Tour
“Il mio albergatore mi annunciò che si stimava felice di potermi servire trote propriamente stupende. Si prendono presso Torbole, dove il torrente scende dai monti e dove il pesce cerca di risalirlo”. È il 12 settembre 1786 e Goethe è giunto sul lago di Garda, a Torbole, all’estremità settentrionale. Può godersi lo stupendo panorama e gustarsi una prima prelibatezza. “Le trote hanno il corpo tutto coperto di punti rossicci, il loro gusto sta fra quello della trota e quello del salmone e per dir il vero sono di gusto delicatissimo e saporite”.
Ma il poeta tedesco ed in genere i viaggiatori del ‘700 non sono certo mossi da interessi gastronomici nelle loro visite in Italia, tuttavia tra un’opera d’arte, un paesaggio ed un reperto antico, non disdegnano di rilevare di tanto in tanto certe abitudini alimentari del Bel Paese.
Gli stati italiani, a parte qualche città, non hanno strutture in grado di offrire una gastronomia qualificata, a livello turistico e popolare, e la gran parte dei viaggiatori danno un giudizio negativo sulla qualità del cibo e dell’igiene che trovano nelle osterie e nelle taverne. Non Goethe, che è troppo preso dai suoi interessi artistici, storici e naturalistici per esprimere personali rilievi.
Ma Pierre-Jean Grosley, scrittore e storico francese, racconta di una cena in una locanda di Capua (1758) in cui preferìsce non toccare cibo (vino cattivo in bicchieri di terracotta, cosciotto di vecchio caprone, insalata, cattivo pane, tovaglia sporca), limitandosi a qualche frutto. E lady Anna Miller, scrittrice e poetessa, di famiglia ricca ed altolocata, è molto critica sulle vivande preparate da una locanda di Narni (1771): uova non del tutto marce, pane raffermo, carne solo di capra, il cui odore rancido riempie tutta la casa. Si esprime più o meno allo stesso modo nei riguardi di locande di Fiorenzuola e di Radicofani, mentre si trova bene per il vitto a Bologna ed a Napoli.
Analoghe le valutazioni dello scrittore scozzese Tobias Mollet, che non nasconde il suo disgusto per la cucina delle osterie (Civita Castellana), ma gusta con piacere la cucina romana, in particolare un piatto, la “vitella mongana”, una carne molto tenera e bianca.
Un po’ tutti i visitatori lamentano l’assenza del burro, considerato in Italia un articolo di lusso, mentre non apprezzano l’olio d’oliva. Evidentemente portano con sé i sapori ed i gusti dei cibi di casa.
Lo splendore dei banchetti aristocratici
A questa cucina povera di mezzi e di cultura, si contrappongono gli splendidi banchetti aristocratici, degni continuatori dei conviti del Rinascimento, quando la cucina italiana era la più prestigiosa e ricercata in tutta Europa. Ad essi spesso vengono invitati anche gli illustri visitatori stranieri, come ad esempio Charles de Brosses, politico, magistrato, archeologo, geografo, invitato al pranzo offerto dall’ambasciatore di Francia a Roma, il 13 dicembre 1740. Nel suo racconto c’è tutto il suo stupore: tavola a ferro di cavallo,150 invitati, 4 maggiordomi che dirigevano quadriglie di camerieri, 49 vassoi carichi di agrumi, e poi alimenti costosi e ricercati (storioni, pernici, caprioli, salmoni, prosciutti, tartufi, frutta candita) in quantità tale da essere accaparrati ed asportati senza ritegno dai presenti e da lacchè estranei venuti allo scopo.
Il fascino dei mercati di città
Anche Goethe accenna alla sua partecipazione a banchetti aristocratici, ma non si sofferma a descriverli. Trova più interesse, invece, per le attività alimentari di strada, come quelle dei friggitori di Napoli, che preparano su padelle di olio bollente pesci fritti e frittelle per le migliaia di napoletani, disposti a portarsi a casa, “per asporto” si direbbe oggi, cibo pronto per il pranzo o per la cena. Resta affascinato dai mercati, per i colori, per le voci, per il fluire della gente, per l’allegria.
Quello di Napoli non ha paragoni, offre tanti cibi da sembrare il paese di Cuccagna, tutte le qualità di pesci (gamberi, ostriche, cannolicchi, crostacei) , presentati in una bella cesta pulita e su uno strato di foglie verdi; distese di arance e di limoni contornate dal verde; ghirlande di generi alimentari che sovrastano le vie, rosari di salsicce dorate, asini carichi di ortaggi, capponi ed agnelli, montagne d’uova Lo attira in particolare il mercato degli ortaggi, “che sono squisiti, specie l’insalata, che ha la dolcezza ed il sapore del latte”, per non parlare dei carciofi e dei broccoli siciliani.
La scoperta della pasta
E proprio a Napoli, Goethe scopre il cibo italiano per eccellenza, la pasta, anzi “i maccheroni, specie di pasta cotta, di farina sottile, morbida e ben lavorata, che viene forgiata in diverse forme; dappertutto se ne può acquistare d’ogni genere per pochi soldi. Si cuociono di solito in semplice acqua e il formaggio grattugiato unge il piatto e lo condisce”.
Un cibo popolare, che la gente consuma per strada, come attestano altri viaggiatori, ma apprezzato anche dall’aristocrazia e dallo stesso re Ferdinando IV, che ne è ghiotto e lo mangia con le mani. La forchetta diventa più comoda per mangiare la pasta scivolosa e bollente e proprio a partire dal Settecento viene introdotta come utensile prima nelle corti italiche e nei palazzi nobiliari.
La pasta, nelle sue varianti locali, ha avuto ancora nel Medioevo una certa diffusione nel bacino del Mediterraneo, mentre nell’Europa centrale, comincia a diffondersi come pasta all’uovo solo nel XVII secolo, in particolare in Renania ed in Alsazia.
Era diventato l’alimento principale del popolo fin dal secolo precedente, anche in seguito all’invenzione del torchio a trafila meccanico, che aveva portato alla riduzione del prezzo. L’originalità della pasta italiana deriva da un nuovo sistema di cottura (bollitura invece che passaggio al forno) e da nuovi formati di paste forate (rigatoni, penne, bucatini) e ripiene (tortellini, ravioli, agnolotti). Di fondamentale importanza è stata l’invenzione della pasta secca a lunga conservazione, ricorrendo ad un metodo di essicazione all’aria aperta, favorito dal clima, dalla ventilazione e dall’umidità delle regioni del Sud Italia.
Le varie tipologie di pasta di grano duro vengono diligentemente descritte dal domenicano francese Labat, che cita “macaroni, vermicelli, tagliolini, festucie”, ottenuti da una macchina dove si introduce l’impasto, che poi esce sotto pressione dai fori della grossezza desiderata. Sono più di trenta i tipi di pasta, precisa l’astronomo francese Jerome de Lalande, in Italia negli anni 1765 e 1766, da quelli più “fini”, come “i fedelini, i vermicelli, i sementella” a quelli più rozzi, come “i macaroni, le trenette, le lasagnette”.
Goethe ci racconta di un suo particolare incontro con la pasta ad Agrigento, in una locanda attigua ad una piccola fabbrica di maccheroni di una specie ricercata, preparati in bastoncini lunghi un dito e poi piegati ed arrotolati in forma di chiocciole dalle sottili dita di fanciulle. “Il piatto di maccheroni che ci servirono era squisito, ma purtroppo non disponevano della qualità più perfetta, introvabile fuori della città. Quelli che mangiammo ci parvero non aver l’uguale per bianchezza e per delicatezza di gusto”.
Non ci dice niente, però, del condimento. Di solito veniva condita in maniera leggera, con il formaggio e qualche profumo o qualche spezia; più avanti, grazie all’influenza della cucina francese, si ricorre al sugo di carne ed ancor di più al pomodoro, una volta trasformato in salsa, come avvenne per la prima volta nel Regno di Napoli nel corso del XVII secolo.
“I maccheroni sono l’abituale cibo del popolo”, annota Lalande, ma diventano anche il piatto prediletto dai giovani rampolli dell’aristocrazia inglese, che ne fanno una moda. Il pittore Jones, tra le provviste che si porta dall’Italia nel viaggio di ritorno a Londra, fa imbarcare anche 24 libbre di maccheroni.
Dopo essere stati un potente simbolo unitario all’interno della nazione, più del servizio militare, più del suffragio universale, si può dire siano anche diventati ambasciatori dell’Italia all’estero.