Nella foto: Uliveti. Foto di ©Daniele Messina.

Un diario di viaggio nella terra degli ulivi

La strada statale 93 che percorro fra Canne della Battaglia e Canosa di Puglia, non so come, mi rievoca i famosi versi del Carducci sui cipressi alti e schietti che vanno da Bolgheri a San Guido „in duplice filar“. Qui invece mi trovo circondato da secolari piante di ulivo, non particolarmente alte, ma fantasticamente divaricate, bitorzolute ed accartocciate a spirale, ciascuna a modo proprio, mentre i cipressi mi sembrano tutti uniformati e simmetrici. La Puglia non ha nulla da invidiare alla Toscana, mi dico. A un certo punto non resisto: fermo la macchina in una piazzola e m’addentro a piedi in uno splendido uliveto che non è recintato; ma il „bisognino naturale“ che devo soddisfare consiste tutto nel fotografare con la mia Lumix gli alberi più belli per godermene l’immagine nella triste Deutschland, dove non crescono. Mentre che sono intento a questa bisogna, vengo colto in flagrante da un contadino del luogo che mi domanda poco gentilmente cosa io stia facendo nel suo campo. Anche se non c’è il recinto, ci sono dei sensori nascosti che gli hanno suonato l’allarme. Mi scuso umilmente, gli spiego che sono di passaggio, che abito in Germania, e che mi ero fermato solo per fotografare quegli alberi bellissimi. Gli mostro le immagini che ho già ripreso, sottolineando che lo stesso ulivo ha un aspetto completamente diverso, come se fossero due diverse piante, se fotografato da due angoli diversi, quando invece i cipressi si mostrano sempre uguali a 360°. Alla fine riesco a convincerlo che non sono un malfattore. Anzi, gli piace la mia passione per le sue piante e mi invita nella sua masseria per farmi fotografare un ulivo vecchio di 600 anni.

Proseguo il mio viaggio. In cima a una lenta salita mi appare Canosa di Puglia, l’antica Canusium, l’antichissima Kanaus degli Japigi, che erano il primitivo gruppo etnico che popolava la regione già dall’età del bronzo. Qui la storia non è cominciata con l’arrivo dei romani. Secondo antiche leggende questi protopugliesi discenderebbero da Japyx, figlio di Dedalo e fratello minore di Icaro.

Ho fortuna, trovo un posto per parcheggiare la mia auto sulla salitella che sbocca sulla piazza del duomo; sul parcometro programmo la sosta di un’ora che dovrebbe bastare. Il duomo di Canosa è così antico che per entrarci bisogna scendere le scale anziché salirle. Ed all’interno conserva ancora un’atmosfera d’un passato arcano che si evidenzia nel trono vescovile sorretto da due elefanti che risale al 1080 ed è perfettamente conservato. Pressoché millenario è anche il pulpito in pietra della stessa epoca. Annesso alla navata sinistra c’è un antico edificio quadrangolare rimasto intatto da più di 9 secoli con la sua porta bronzea: il mausoleo di Boemondo.

Nella foto: Ceramica nel museo archeologico di Canosa. Foto di ©D.M.

Ma chi era mai questo Boemondo d’Altavilla? 

Era nientemeno che il figlio primogenito del conquistatore normanno Roberto il Guiscardo, primo re del Sud Italia. Celebre condottiero, Boemondo fu uno degli eroi della prima crociata conquistando a fil di spada il principato di Antiochia, cioè l’odierna città di Antakia in Turchia. Come aspetto fisico, non somigliava affatto all’attore Adolfo Celi, che lo interpreta nel film Brancaleone alle crociate. Una testimonianza più affidabile ci ha lasciato la principessa Anna Comnena, figlia dell’imperatore di Bisanzio, che incontrò Boemondo nel 1097 e ne lasciò una descrizione impressionante: una specie di gigante, tanto alto di statura da sopravanzare di quasi un cubito gli uomini più alti, stretto di vita e di fianchi, con spalle larghe e torace possente e braccia poderose. Di carnagione bianca in tutto il corpo, la lunga capigliatura bionda gli copriva le orecchie, mentre la barba era rossiccia e gli occhi azzurri brillavano di fierezza e decisione. Insomma, se fosse vissuto oggi, avrebbe certo fatto carriera a Hollywood; però è morto nel 1111.

Esco dal duomo e m’accorgo che sul suo fianco c’è il padiglione dell’Info Point turistico. „Ci scommetto che è chiuso“ penso ironicamente fra me; e invece no, è aperto, e dentro vengo accolto da due belle ragazze pugliesi che si pongono subito al mio servizio per illuminarmi sulle bellezze della loro città. Io spiego che vorrei visitare San Leucio e l’ipogeo Lagrasta, di cui parla la mia guida. Con grande gentilezza mi fanno notare che quei monumenti sono chiusi e che in città ci sono molte altre cose da vedere, ad esempio il museo archeologico. Mai sentito nominare, rispondo io.

Loro mi replicano che è lì a due passi e che vale la pena. Per quel che riguarda gli altri monumenti, essi devono prendere contatto con un addetto che ne ha le chiavi e che si chiama Dario. Lui mi guiderà di persona ed entro un’oretta sarà pronto. Nel frattempo io potrei fare un salto al museo archeologico.

Esso è collocato in un palazzetto su una via principale e consta di poche sale; ma le sue vetrine contengono manufatti di ceramica che mi sorprendono per la loro stranezza cromatica: vi predomina il colore rosa contrastato con il turchese. Avvezzo in ogni museo ad ammirare la severa ceramica attica nera ed ocra, quel morbido contrasto di rosa e turchese per me è assolutamente nuovo, e dovevo entrare in questo museo per restarne sorpreso. La direttrice del museo, che mi fa l’onore di accompagnarmi personalmente, mi spiega che quei pigmenti provengono dalla vegetazione locale. Così mi sono reso conto che Canosa ha molto più da offrire al visitatore di quanto non immaginassi.

Ritorno all’info point e trovo Dario mi sta aspettando a bordo della sua auto. È un giovanotto di circa 30 anni, molto gentile, e mi invita a sedermi sul sedile accanto. Mi porterà lui in giro, ed io penso che la benzina sarà a suo carico, e quindi mi riprometto di dargli una bella mancia al termine della visita. Gli dico che vorrei acquistare un po’ dell’olio prodotto dai quei magnifici alberi affinché con il suo sapore mi rallegri il triste inverno teutonico (i cipressi, detto per inciso, non producono niente di commestibile), e Iui mi promette che al termine mi porterà in un negozio specializzato.

Arriviamo in cima a un’altura fuori città e lì, solitaria e circondata dagli ulivi, c’è l’area archeologica di San Leucio. Dario mi apre il cancello con le sue chiavi, mi fa da guida dentro il museo e fra le colonne e i bellissimi capitelli figurati. Poi mi porta all’ipogeo Lagrasta, un’imponente tomba aristocratica del III-IV secolo a.C. che non ha niente da invidiare a quelle etrusche. Di qui mi porta in un posticino a lui noto, un ipogeo scoperto da poco mentre facevano dei lavori per la costruzione di una palestra scolastica, e la scavatrice, inopinatamente, ne ha fatto crollare la volta. Scendiamo giù assieme e lui mi mostra come per mezzo di proiezioni gli archeologi hanno ricostruito l’aspetto originario.

È giunto il momento di recarsi al ponte romano sull’Ofanto, dove passava la Via Appia Traiana, una variante della Regina Viarum. Senonché, appena uscito all’aperto, mi batto la mano sulla fronte: „Idiota, che sono!“ mi scappa un grido, „Ho dimenticato la mia macchina parcheggiata con l’orario scaduto!“, e da un bel pezzo: è passato mezzogiorno. Mannaggia, ecco che succede quando ci si mette a inseguire cose interessanti. Dario capisce al volo e mi riporta indietro verso la piazza del duomo, mentre io mi rimprovero „idiota, idiota, idiota!“. Come temevo, è troppo tardi: sul parabrezza c’è una multa da 18,60 €. Non sarebbe una catastrofe, se non fosse che non so come fare a pagarla. Dario mi indica l’esattoria comunale, lì a due passi; ma purtroppo è già chiusa e riapre domattina. Buonanotte, ed io stasera volevo essere a Matera! Quando Dario mi vede così smarrito, si fa avanti e mi offre di pagare lui la multa per me, l’indomani mattina. Io mi sento imbarazzato davanti a tanta gentilezza. Ma lui mi controbatte che è suo compito mettere a proprio agio i visitatori della sua città. Ciò malgrado, nel consegnargli la mia multa e il denaro per pagarla mi sento così imbarazzato e confuso, che non vedo l’ora d’andarmene. Mi congedo e riparto seduta stante da Canosa. Ma mentre ripercorro la strada circondato dagli uliveti, ancora una volta mi do dell’idiota, e me lo merito. Perché sono ripartito da Canosa senza farmi la provvista di olio d’oliva locale come avevo intenzione. E non ho dato a Dario la mancia che avrei voluto e dovuto. Se l’era proprio meritata. E adesso come faccio? Tutta colpa di quella multa che però era stata per colpa mia. Ho dei rimorsi. Da Matera telefono a Dario per chiedergli scusa della maniera brusca con cui avevo troncato la visita… Me ne dispiace sinceramente. Lui mi risponde che lì per lì anche lui aveva dimenticato la storia con la provvista dell’olio, altrimenti me l’avrebbe ricordata sul posto. Sarà per la mia prossima visita a Canosa. Non so quando sarà, ma ci sarà.