Nei primi tempi del suo soggiorno a Roma, Winckelmann sente ancora attivi e vitali i suoi legami con la Germania. In fin dei conti il suo parco appannaggio prevede una permanenza in Italia di due anni, dopo di che sarebbe opportuno programmare un ritorno in patria, se qualcuno non gli assicurasse uno status sociale e finanziario adeguato. Perciò continua a curare i rapporti con alcuni personaggi importanti, come il nipote del barone Philipp Stosch, in vista dell’assunzione come custode della collezione numismatica del barone. Cerca anche l’appoggio del primo ministro sassone Heinrich von Brϋhl, facendo da cicerone a suo figlio in viaggio a Roma. Riesce ad ottenere il titolo di “Antiquario del Principe”, ma viene a sapere che l’incarico sarebbe stato disponibile non prima di tre anni.
A Roma, invece, viene nominato “Prefetto delle Antichità” e riceve l’incarico di “Scrittore della Biblioteca Vaticana”, per cui la sua permanenza è destinata a prolungarsi sine die. E l’Italia diventa la sua patria d’elezione, campo privilegiato delle sue ricerche archeologiche, storiche ed artistiche. Anche perché comincia ad apprezzare sempre più quell’otium romano, che lo porterà a scoprire il vero valore dell’esistenza, da coltivare e non da sprecare, per raggiungere quell’olimpica serenità, possibile solo nella contemplazione delle opere d’arte classiche.
Il difficile rapporto con i reperti di Ercolano e Pompei
E proprio in quegli anni il suo fervido interesse per il mondo dei Greci viene ulteriormente incentivato dagli scavi di Ercolano e di Pompei, intensificati a partire dal 1748 per iniziativa di Carlo III di Borbone. Napoli diventa un importante punto di riferimento per artisti, letterati, mecenati e collezionisti. Winckelmann è tra i primi a visionare gli scavi campani (1758) e ci ritorna nel 1762, facendo un resoconto dettagliato in una lettera al Conte di Brϋhl, che verrà pubblicata nello stesso anno. È attirato in particolare dalle pitture, che rappresentano Menadi danzanti, Satiri e Centauri, addirittura può assistere in diretta (1764) al ritrovamento di un mosaico con scene di commedia, conservato oggi nel Museo Archeologico di Napoli.
Il contatto diretto con tante opere d’arte, in particolare con le magnifiche statue in bronzo ed in marmo rinvenute nella “Villa dei papiri” e custodite nel Museo di Portici, lo entusiasma. Nelle sue descrizioni coglie quegli aspetti “corporali”, che sono riconducibili ad un certo stile di vita, quello dell’uomo greco, che vive nella perfetta armonia del corpo e dello spirito.
Ed anche per questo non tollera le restrizioni poste alle visite agli scavi dalle autorità preposte. Indubbiamente c’è un problema di protezione e di segretezza, perché era già cominciata la “caccia al tesoro” ed i Borboni avevano vietato il disegno dal vero dei reperti. Come lo vieteranno anche a Goethe nel 1787. Solo dopo lunghe insistenze il poeta tedesco ed il suo amico pittore, J.H.W. Tischbein, riusciranno a ricopiare qualche scena, sorvegliati da un diffidente custode.
Ma gli studiosi ricorrono a qualche escamotage per poter fare i disegni dal vero, come la corruzione pecuniaria del custode di turno o la bella accompagnatrice in grado di distrarre i controlli. Anche Winckelmann riesce a penetrare clandestinamente tra le rovine di Ercolano. Però tutta quella segretezza lo fa infuriare, al punto che nel 1764 pubblica una relazione contro la conduzione selvaggia degli scavi e l’arbitrarietà dei restauri. Fa scalpore il suo sprezzante giudizio sull’ingegnere militare Joaquin de Alcubierre, a cui Carlo di Borbone aveva affidato la direzione degli scavi: “Un uomo che s’intende di archeologia come la luna s’intende di gamberi”.
Non ha tutti i torti, perché l’ingegnere era abituato a procedere per gallerie sotterranee scavate a colpi di piccone, al solo scopo di recuperare opere d’arte. L’esplorazione del sito degli scavi, comunque, prosegue priva di un metodo scientifico e, nonostante un decreto reale, non riesce a scongiurare il saccheggio di statue e di oggetti preziosi. In una pubblicazione della metà del ‘700 il Conte de Caylus, archeologo e collezionista, fa un resoconto dei ritrovamenti di Ercolano: 700 pitture, 350 statue, 700 vasi, 40 candelabri, 800 manoscritti,, 600 oggetti vari.
Quei reperti, quegli scavi, sono destinati ad avere una grande influenza sull’immaginario e sulla cultura europea e Winckelmann è ritenuto uno degli artefici principali della fortuna critica di Ercolano e di Pompei.
Invaghito di Firenze
Lo studioso tedesco si lascia andare altre volte all’indignazione ed a giudizi taglienti nei confronti di certi personaggi, come il direttore generale dell’Accademia delle Scienze di Berlino, definito “asino ignorante” o l’ambiente degli eruditi e degli intellettuali fiorentini, tacciati di “bestiale ignoranza”.
A Firenze ci va ai primi di settembre 1758, invitato da H. W. Muzell Stosch per catalogare la raccolta di gemme che il barone Philipp von Stosch, morto l’anno precedente, conservava nel suo Palazzo Ramirez de Montalvo in Borgo degli Albrizzi. Parte da Roma con l’intenzione di stare a Firenze due mesi ed invece ci rimarrà fino all’aprile del 1759, segno che, nonostante i difficili rapporti con certi eruditi, ci sta bene fin dai primi tempi:
“Firenze non è Roma, ma non lascio di essere invaghito dalla città e particolarmente dai dintorni. I Signori Fiorentini che ho praticato finora, cioè persone di primo rango, col Ministro Inglese, sono garbatissimi”. E quello fiorentino sarà un periodo felice della sua vita, in cui avrà “l’opportunità di vedere e di imparare molte cose e di conoscere ed apprezzare un luogo per lui il più caro e gradevole del mondo”. Lo scopo principale del suo soggiorno è sì la catalogazione delle gemme Stosch, ma soprattutto lo studio del mondo degli Etruschi e del loro antiquariato.
Meglio l’italiano
Ma Firenze, appunto, non è Roma e Winckelmann ritorna nella Città Eterna nell’aprile del 1759 desideroso di dedicarsi alla riscoperta del mondo degli Antichi e di comunicare i risultati entusiasmanti delle sue ricerche. Perciò s’impegna nella stesura della sua opera maggiore, la “Geschichte der Kunst des Altertums”, che esce a Dresda nel 1763, e due anni dopo nella pubblicazione di due grossi volumi, i “Monumenti antichi inediti”, in italiano, che illustrano scientificamente le opere d’arte dei musei romani, soprattutto le sculture. È interessante la decisione di Winckelmann di pubblicare l’opera in lingua italiana, nel toscano letterario, ritenuto uno strumento linguistico eccellente, duttile, terso, espressivo, in grado di accostarsi con la sua musicale armonia ai capolavori dell’arte antica.
Sempre più chiara è la sua intenzione di presentare il mondo antico da un punto di vista più narrativo, con un’intenzione didattica mirata da un lato a far uscire la conoscenza dell’arte dall’ambito dei pochi privilegiati e dall’altro ad influenzare il mondo degli artisti. Perché il fine ultimo resta sempre quello di comunicare il proprio entusiasmo estetico, la perfezione incarnata in quelle forme, quell’armonico equilibrio che produce in lui una pura estasi. Solo così il mondo greco non resta più parte di un passato definitivamente trascorso, ma diventa forza viva e presente, un modo d’esser uomini che deve tornare attuale.
Una triste fine
Ormai Winckelmann è conosciuto in molti paesi d’Europa, come storico stimato e padre del classicismo. Nell’aprile del 1768 parte per un viaggio in Germania ed in Austria. A Vienna viene ricevuto con grandi onori dall’imperatrice Maria Teresa e dalla corte imperiale. Il cancelliere Kaunitz e Maria Teresa gli fanno dono di due medaglie d’oro e due d’argento.
Il 28 maggio parte da Vienna in incognito ed il primo giugno giunge a Trieste, dove alloggia alla “Locanda grande”, uno dei migliori alberghi della città, in attesa di una nave per Ancona.
L’otto giugno viene pugnalato a morte da Francesco Arcangeli, un cuoco di Pistoia con precedenti penali, che viene catturato una settimana dopo, ma non spiegherà mai il motivo del delitto. Sarà giustiziato il 20 giugno. Non si sa se si tratta di un compagno di viaggio, di una conoscenza occasionale, di un problema di omosessualità o del tentativo di furto delle medaglie ricevute in regalo.
Una fine tragica ed inquietante per quello che viene riconosciuto come il fondatore della moderna storia dell’arte.