La mafia è ovunque e fa parte della Storia d’Italia, fa parte del sistema economico del Paese, non solo di quello meridionale. Se prima si parlava soltanto di infiltrazioni al Nord, negli ultimi anni diverse inchieste hanno dimostrato una vera e propria presenza radicata delle mafie nelle regioni settentrionali in Italia
Seguendo le stesse strategie le mafie hanno messo piede anche in Germania. La scalata delle cosche in questo paese non è di recente data, ma risale agli anni ‘80. Anche in questo caso ci aiuta un esempio: il piano di uccidere il giudice Rosario Livatino, assassinato il 21 settembre 1990, partì da Mannheim, dove i cosiddetti stiddari avevano un nucleo operativo. Se fino alla fine degli anni ‘80 la presenza di mafiosi in Germania era limitata, con la caduta del muro di Berlino invece è arrivata la svolta in quanto la fine della Repubblica democratica tedesca è stata colta da molte cosche siciliane e calabresi come una ghiotta occasione per investire il denaro proveniente dal narcotraffico internazionale, acquistando terreni, locali e imprese. Ma solo con la strage di Duisburg nell’agosto 2007 le procure tedesche si rendono finalmente conto che le mafie italiane in Germania detengono una grossa fetta di potere criminale. Le cosche dal canto loro hanno capito che la strategia migliore da adottare in Germania è il silenzio; difatti hanno celato completamente il loro volto truce e violento, preferendo dal 2007 in poi la corsia “imprenditoriale”.
Le mafie in Germania fanno parte oramai integrante di un sistema criminale più ampio, in cui le alte sfere criminali si dedicano ai reati tipici dei “colletti bianchi”: corruzione, reati tributari, false fatturazioni e riciclaggio. Si tratta di reati economico-finanziari che, sebbene vengano percepiti come meno pericolosi, nella realtà dei fatti si rivelano forse perfino più devastanti di quelli che implicano l’uso visibile della violenza e sono, a mio avviso, un pericolo costante per la democrazia perché inquinano la vita pubblica, aggravano le disuguaglianze, danneggiano la collettività, alterano gli equilibri di mercato e ricadendo il tutto sulle fasce più deboli della società. Attualmente le autorità tedesche stimano che siano oltre 770 gli esponenti dei clan mafiosi presenti nel territorio tedesco, tra cui più di 500 farebbero parte della ‘ndrangheta.
La Germania deve fare tuttavia ulteriori sforzi per attrezzarsi adeguatamente nella lotta contro le mafie. Lo spazio normativo tedesco è – al contrario di quello italiano – ancora poco incisivo. In tal senso chi si occupa di criminalità organizzata in Germania ha purtroppo poche misure legislative a disposizione per ottenere risultati efficaci; per esempio: nel codice penale tedesco, Strafgesetzbuch, non è prevista una norma che sanzioni l’associazione di stampo mafioso. Esiste soltanto (art. 129, Strafgesetzbuch) una norma che sanziona l’associazione a delinquere. E questo si vede: nel 2017 i detenuti nelle carceri tedesche colpevoli di aver violato l’art. 129 dello Strafgesetzbuch erano solo otto; in Italia, nello stesso anno, i detenuti per mafia erano oltre 7.000. Il fatto che non esista il reato di associazione di stampo mafioso comporta inoltre ulteriori difficoltà per gli inquirenti, che spesso preferiscono indagare su altri delitti, sulla carta, più gravi. Per un magistrato tedesco, in vista dell’ottenimento di un processo repentino, è più efficace indagare sul narcotraffico o sullo sfruttamento della prostituzione, piuttosto che addentrarsi in un’istruttoria complessa per provare il reato di associazione a delinquere.
Anche la confisca dei beni (Vermögensabschöpfung) – nonostante lo sforzo negli ultimi anni da parte del legislatore tedesco di riformare lo spazio normativo (con una legge del 2017), che finalmente ribalta l’onere della prova a discapito del condannato – non ha purtroppo finora portato i risultati auspicati, per il semplice fatto che, da una parte, la confisca dev’essere una diretta o indiretta conseguenza di un reato e, dall’altra, perché gli impiegati che all’interno delle procure si occupano della confisca dei beni, i cosiddetti Rechtspfleger, hanno ancora bisogno di adattarsi alle nuove leggi. Ci vorrà ancora qualche anno prima di stabilire se le nuove disposizioni normative hanno un efficace impatto contro la criminalità organizzata.
Un altro macigno sulla strada verso una lotta efficace contro le mafie riguarda il reato di riciclaggio, che nel codice penale tedesco si trova nell’art. 261 dello Strafgesetzbuch. Si tratta, senz’ombra di dubbio, di una delle norme più complesse dell’ordinamento penale tedesco. In esse il reato di riciclaggio presuppone infatti che il denaro provenga da un atto criminale. Considerando le sanzioni previste da questa legge (un massimo di cinque anni di reclusione), i procuratori, nonostante le numerose inchieste che partono spesso dalle segnalazioni bancarie, preferiscono spostare l’indagine su altri illeciti (truffe, narcotraffico e frode fiscale). Il riciclaggio resta così un reato pressoché trascurato dalle procure. L’art. 261 ha subito negli ultimi anni alcune modifiche ma finora senza effetti concreti. L’ultima riforma risale a marzo 2021, ma c’è chi la ritiene inopportuna e poco incisiva. Questo è anche uno dei motivi che hanno indotto lo scorso anno l’Unione europea ad agire, obbligando gli Stati membri a introdurre nelle leggi nazionali alcune misure antiriciclaggio, come quella di poter sanzionare anche le imprese. È inoltre previsto un innalzamento delle pene di reclusione a un minimo di quattro anni e, infine, il divieto di pagamenti in contanti a partire da una somma di 10.000 euro.
In Germania non esiste inoltre una legge simile al 41bis, la disposizione contenuta nella legge Gozzini, varata già nel 1986, che prevede il “carcere duro” per alcuni detenuti mafiosi. Inizialmente il 41bis doveva essere una misura di emergenza, poi però, nel 1992, subito dopo la strage di Capaci, fu applicata in particolare a quei detenuti che per motivi di sicurezza non avrebbero dovuto avere contatti con l’esterno o con altri carcerati. Queste disposizioni possono risultare utili al fine di stroncare ogni possibilità di attività criminale da parte del detenuto, magari attraverso chi lo visita in carcere. In Germania, dunque, l’ordinamento penitenziario (Strafvollzugsgesetz) non prevede misure di sicurezza speciali per un esponente di un clan mafioso.
Infine manca oggi agli inquirenti tedeschi uno strumento che per Giovanni Falcone è stato di straordinaria importanza: una legge speciale che tuteli il pentito di mafia. Il cosiddetto Kronzeugengesetz, che è stato in vigore fino al 1999, non è stato prorogato. Ne consegue che, finora, i pentiti di mafia in Germania siano stati pochissimi e per chi indaga è praticamente impossibile addentrarsi nella fitta e oscura rete dei clan attivi in Germania. L’art. 46bis del codice penale tedesco che ha sostituito la legge sui pentiti è una norma generica – vale a dire, applicabile ad ogni tipo di reato. Anche per quanto riguarda questa sedes materiae il legislatore tedesco ha finora preferito evitare l’introduzione di una norma speciale per il contrasto al fenomeno della criminalità organizzata.
Insomma, il lavoro di Giovanni Falcone potrà dare i suoi frutti solo quando si creerà un 416bis a livello europeo, solo quando la procura europea, che attualmente si occupa soltanto di reati ai danni degli interessi finanziari dell’Ue, si trasformerà in una specie di super-procura antimafia europea, per colpire realmente i patrimoni illegali e i flussi di denaro sporco, potenziando la cooperazione giudiziaria internazionale, ad es. attraverso la costituzione di gruppi investigativi europei e potenziando il lavoro dell’Europol. Insomma, dobbiamo andare ben oltre la retorica di convenienza, anche estendendo la Convenzione di Palermo a nuove forme di criminalità come il cyber crime. È l’unico modo per realizzare la visione di Giovanni Falcone che, già quarant’anni fa, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata potesse diventare un problema globale.