L’episodio che cento anni fa portò al potere la dittatura fascista rappresenta l’occasione per una rilettura della storia. Anche a livello locale
Storicamente il nazionalismo si è manifestato in modi diversi e contrapposti. Ad esempio come ideologia di liberazione dall’oppressione. In Italia questa ideologia alimentò i moti rivoluzionari del Risorgimento contribuendo, nel 1861, alla realizzazione dell’Unità. Ma il nazionalismo si è manifestato anche come sopraffazione e negazione della libertà, nonché come affermazione della supremazia di una nazione sulle altre. La storia europea dell’ultimo secolo ha evidenziato il pericolo rappresentato dalla possibilità che sui sentimenti nazionalistici dei cittadini potessero far presa la dottrina e la propaganda di movimenti tutt’altro che democratici e liberali, fascismo e nazionalsocialismo in primis.
Esattamente cento anni fa ebbe luogo la cosiddetta “Marcia su Roma” (28.10.1922). Essa diede avvio alla dittatura fascista che in meno di venti anni portò l’Italia al disastro della seconda guerra mondiale. Le ricorrenze, si sa, stimolano la memoria storica. Il fatto che oggi un partito di estrema destra sia al governo non poteva non accendere dei riflettori supplementari sulle cause storiche del fascismo e sulle modalità con cui si fece strada riscuotendo il consenso di ampi strati della popolazione. La riflessione sull’avvento del fascismo è a maggior ragione opportuna in un momento in cui l’Europa è dilaniata da una guerra e il mondo appare più che mai spaccato tra democrazie e dittature. Benvenuti sono dunque i libri, usciti numerosi recentemente, che si occupano del fascismo come “fenomeno sociale”, degli episodi che ne rappresentarono i prodromi già dopo la prima guerra mondiale, come anche, inevitabilmente, del personaggio storico che ne fu il protagonista assoluto: Benito Mussolini. Accanto ai libri, molteplici e svariate altre iniziative – documentari, film, mostre, convegni e via dicendo – completano il panorama.
Se è vero che la presa del potere ebbe luogo, in quel fatidico giorno di ottobre, nella capitale in quanto sede del Regno e del potere (Vittorio Emanuele III si astenne dal dichiarare lo stadio d’assedio e dal Quirinale salutò militarmente le milizie fasciste che marciarono sotto il suo balcone) è altresì innegabile che l’azione di propaganda e di trasformazione era cominciata da tempo in tutt’Italia, coinvolgendo anche le aree rurali più povere e lontane. Non a caso gli italiani di queste aree erano stati oggetto di attenzione nel documento forse più emblematico della nascita del fascismo, il proclama che Mussolini redasse il 22 ottobre 1922 e che il giorno prima della marcia su Roma fu reso pubblico dal cosiddetto “Quadrunvirato” dei comandanti generali della milizia fascista: Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Italo Balbo e Michele Bianchi, Segretario del Partito Nazionale Fascista. In esso il futuro capo del governo rassicurò i lavoratori italiani, soprattutto i contadini e gli operai. Eccone uno stralcio: “Le genti del lavoro, quelle dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell’impiego nulla hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno sinceramente tutelati”. Che le cose non stessero come Mussolini prometteva nel suo proclama, le classi operaie lo avevano sperimentato, sulla propria pelle, già un paio di anni prima. Lo avevano sperimentato in Puglia dove erano successi fatti di sangue particolarmente gravi. Vediamo.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra il Partito Socialista si era affermato come portatore degli interessi delle masse. Nel gennaio 1919 Don Luigi Sturzo aveva fondato il Partito Popolare Italiano, ispirato a valori di giustizia e libertà. Due mesi dopo Mussolini fondò il movimento politico dei Fasci italiani di combattimento, formato soprattutto da reduci della guerra e da associazioni patriottiche e che, due anni dopo, si sarebbe trasformato nel Partito Nazionale Fascista. A causa della sua antica vocazione contadina la provincia di Foggia costituiva lo scenario ideale nel quale questi tre partiti interagirono facendo leva sulle aspettative dei braccianti agricoli che nel lavoro nei vasti latifondi del Tavoliere vedevano un’opportunità di riscatto sociale. Fu una fase confusa che portò a una mobilitazione dei contadini che richiesero la divisione delle terre demaniali possedute dai Comuni. Riuscire ad ottenere la maggioranza nelle elezioni amministrative locali avrebbe facilitato il riconoscimento delle loro rivendicazioni. È in questo contesto che, a seguito della vittoria dei socialisti, a San Giovanni Rotondo si consumò un massacro in cui persero la vita 14 persone, nove contadini, due casalinghe, un pastore e un carabiniere. Dopo la carneficina vennero arrestati una trentina di militanti socialisti, rilasciati dopo due settimane. Tra essi Luigi Tamburanno che fu nominato sindaco restando in carica fino alla primavera del 1921 quando il Comune venne occupato dalle squadre fasciste. L’eccidio di San Giovanni Rotondo fu un atto contro i lavoratori che si battevano per un equa ripartizione dei terreni del demanio. Fu emblematico di una lotta per la giustizia sociale che, pur se confinata a livello locale, aveva una valenza nazionale.
Un secondo importante avvenimento avvenne a Cerignola, sempre in provincia di Foggia, in concomitanza con le elezioni politiche nazionali del 15 maggio 1921. Anche qui ci furono vittime ad opera dei fascisti che volevano impedire ai lavoratori socialisti di andare a votare per Giuseppe Di Vittorio. Nativo di Cerignola e figlio di braccianti agricoli, Di Vittorio fu un sindacalista rivoluzionario fortemente impegnato nella lotta di emancipazione dei lavoratori agricoli meridionali le cui condizioni di dipendenza verso i padroni rasentavano la schiavitù. Nel mese di aprile 1921 durante una manifestazione di protesta fu arrestato e portato in carcere a Lucera. Per liberarlo gli amici della Camera del Lavoro gli suggerirono di candidarsi come deputato. Il giorno delle elezioni era ancora in carcere. Le elezioni si svolsero in un clima di guerra civile con i padroni uniti che utilizzarono i cosiddetti “mazzieri” per dividere i braccianti agricoli e dissuaderli dall’organizzare azioni di protesta. A ciò si erano aggiunte, in particolare nelle campagne pugliesi, squadre d’azione paramilitari che intimidivano e reprimevano gli avversari con la forza e la violenza. Il 15 maggio a Cerignola gli squadristi uccisero nove persone, tre erano componenti di una famiglia socialista, gli altri, antifascisti che si recavano a votare. Nonostante le sopraffazioni Giuseppe Di Vittorio fu eletto deputato a furor di popolo. Con l’avvento del fascismo fu condannato a 12 anni di carcere dal tribunale speciale fascista e costretto a fuggire in Francia.
Gli eccidi di San Giovanni Rotondo e di Cerignola sono stati oggetto di una relazione del convegno “Gli anni del Fascismo in Capitanata” che ha avuto luogo a Foggia il 14 e 15 ottobre scorsi. Il relatore, Michele Galante, è presidente provinciale dell’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, costituita il 6 giugno 1944 a Roma mentre il Nord era ancora sotto l’occupazione nazifascista. Secondo Galante, “per contrastare il fascismo Di Vittorio fece ricorso alla stessa arma che aveva ispirato la sua militanza sindacale: l’unità, che rimase sempre la sua bussola e la sua stella polare. Per il bracciante di Cerignola l’antifascismo non era la fiammata di un momento, la risposta colpo su colpo alle provocazioni, ma la diuturna opera volta a costruire l’unità più larga capace di parlare a tutti coloro che erano colpiti dalla violenza del regime e dalla mancanza di democrazia e di libertà”.
Il convegno, promosso dalla Società di Storia Patria della Capitanata e dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Foggia, ha trattato a tutto tondo i molteplici aspetti che hanno caratterizzato il ventennio fascista nel territorio del capoluogo foggiano. In chiusura Stefano Picciaredda, professore di Storia contemporanea dell’ateneo foggiano e coordinatore del convegno, menzionando Antonio Vitulli, apprezzato studioso di storia locale di Foggia, ha sottolineato come la Capitanata fosse diventata laboratorio e banco di prova per le iniziative di più profondo impegno del regime fascista, quali la battaglia del grano e la bonifica integrale. Iniziative di una stagione di grande progettualità che tuttavia fallirono miseramente.