“Potessi dar vita alla magnificenza di questi dintorni in una composizione poetica!”
Arrivederci Napoli, con tanti rimpianti!
“Potemmo godere di una vista magnifica. Il sole era limpido, l’atmosfera vaporosa e le coste di Sorrento comparivano di una bella tinta azzurrina. Napoli illuminata, piena di vita, brillava di tutti i colori più vivaci. Al cadere del sole la corvetta si cominciò a muovere lentamente”.
Costa una certa fatica lasciare Napoli, ma il poeta è ormai determinato, spinto verso la Sicilia dalla ricerca di quell’ideale di misura intellettuale e sentimentale, di quel supremo equilibrio delle forme rappresentato dai templi antichi. Siamo ad un momento fondamentale del suo viaggio, per il quale affronta senza batter ciglio il mal di mare e l’imperversare di una burrasca, che lo costringono a stare sdraiato, quasi digiuno (solo un po’ di pane bianco e vino rosso), intento a verseggiare i primi due atti della sua tragedia “Torquato Tasso”.
Finché non spuntano all’orizzonte i monti di Sicilia e si cominciano a distinguere i promontori ed i golfi, “essendo limpidissima l’atmosfera e splendido il sole” e soprattutto essendo tornato calmo il mare. È il due aprile 1787. Il poeta si ristabilisce in fretta e sale sul ponte per godere “la vista piacevolissima” di Palermo, “che sorge ai piedi del monte Pellegrino, di forma bellissima, mentre a sinistra si stende la spiaggia, con seni, capi e promontori”.
Le meraviglie di Palermo
Una volta scesi ed alloggiati in una locanda confortevole, lui e l’amico Christian Heinrich Kniep, provetto disegnatore, autore di schizzi e disegni, escono a godersi la vista bella e variata della città, mentre “la luna splende limpida, la luce è meravigliosa, in un silenzio ed in una quiete piacevolissimi”. Goethe dichiara il suo imbarazzo nella descrizione dell’ambiente “tanta è la purezza dei contorni, la morbidezza del tutto, la varietà delle tinte, la perfetta armonia tra cielo, terra e mare”.
Il poeta è felicemente sorpreso per l’accoglienza che gli ha preparato la natura: “Piante di gelso rivestite di fronde recenti, oleandri sempre verdi, siepi di agrumi, mentre l’aria è mite, tiepida, odorosa ed il vento quasi caldo”. Si mette a girare la città con l’amico, rilevando, come a Napoli, l’assenza di uno spirito artistico che desse norma alle costruzioni, sorte “a caso ed a capriccio”, come “gli ornamenti delle chiese”, decisi “secondo il capriccio degli artisti”. Non tollera la sporcizia ed il fango accumulati in mezzo alle strade, non riesce a capirne la ragione, lo chiede anche ad un “merciaiolo” del posto per addossare infine la colpa alla “disonesta amministrazione” ed alla nobiltà connivente.
Ma la sua attenzione è presto catturata da S. Rosalia, dalla sua fama e dalla devozione da cui è circondata, che la consacra come protettrice del popolo di Palermo. Non lo interessano le feste solenni che vengono istituite in suo onore, ma quel santuario costruito in un anfratto del monte Pellegrino, quasi sulla cima, “ornato con tanta semplicità ed in modo tanto innocente”, più corrispondente “all’umiltà della santa vergine”. E si lascia ammaliare da “quell’immagine bellissima di giovane donna, gli occhi semichiusi, il capo inclinato, come rapita in estasi”, al punto che si sente trattenuto in quel luogo, semplice, lindo e silenzioso e se ne torna a Palermo solo a notte inoltrata.
La stessa magia la avverte il giorno dopo passando alcune ore “piacevolissime e tranquillissime” nel giardino pubblico, un ambiente meraviglioso, tra piante esotiche, viali di aranci e di agrumi, pareti di oleandri tempestati di fiori rossi, un vero incanto “che ci trasporta nei tempi antichi”. Appunto. “Le onde cupe del mare, il loro frangersi sulle spiagge, l’odore delle acque salse, tutto mi richiama alla memoria l’isola felice dei Feaci”. La sua immaginazione è tutta lì.
Perciò dedica poche righe alla cattedrale o al Palazzo Reale, nessuna alla Cappella Palatina, detesta villa Palagonia e le sue sculture mostruose, “l’apice del cattivo gusto”, è infastidito dal chiasso smodato della festa di Pasqua, anche se osserva con interesse “i costumi della popolazione”.
Nel cuore delle memorie greche
Ormai è impaziente di entrare in contatto con quelle forme che più di altre incarnano l’idea della bellezza e dell’armonia, attraversando “contrade magnifiche”, paesaggi coltivati ad ulivi, carrubi, cereali, fave, viti, punteggiati di fiori di ogni tipo e colore.
Ecco la “stupenda” Alcamo, che produce in lui “un’impressione profonda” per il “carattere grandioso della contrada”. E poi, finalmente, in territorio di Calatafimi, si avvicina al cuore delle memorie greche, al tempio di Segesta: “La posizione del tempio è bella. Sorge su una collina in fondo ad una valle ampia, lunga e di là la vista si stende sopra una vasta contrada”. Così apre l’orizzonte attorno al tempio ed evidenzia come le caratteristiche costruttive e le proporzioni siano proprie del periodo classico, segno evidente di un alto grado di ellenizzazione. Esamina quindi i resti del pavimento per dedurre che quel tempio non era mai stato ultimato. Ed infine ci fa sentire come quell’architettura faccia ormai un tutt’uno con la natura, tra “nubi di farfalle che svolazzano sopra le piante dei cardi in fiore, mentre il vento sibila tra le colonne come attraverso ad una foresta ed uccelli di rapina descrivono ampie spire sopra quelle rovine”.
Ma le cose da vedere sono tante e dopo due giorni si riparte. Non conta il paesaggio non sempre interessante, non conta la fatica del viaggio in quella terra delle bellezze. Il 24 aprile sul far del giorno stanno per giungere in vista della città antica di Girgenti (odierna Agrigento) e l’alba non può che essere stupenda: “Non credo aver visto finora nella mia vita un così stupendo levar del sole in primavera”, annota Goethe. e continua proseguendo il cammino: “Incontriamo viste pittoriche ad ogni passo, località che avrebbero potuto essere il teatro di un idillio”. E gli si apre davanti la Valle dei Templi.
Prima il Tempio di Giunone, famoso per la celebrazione delle nozze, ora in inevitabile deperimento per i materiali di costruzione porosi e leggeri, poi il Tempio della Concordia, forse il meglio conservato, dallo “stile svelto e grazioso”, che corrisponde, secondo il poeta, “alle idee che ci formiamo del bello e del piacevole”; quindi le rovine del Tempio di Giove, che “giacciono sparse a terra qua e là come le ossa di un gigante ” ed ancora i resti del Tempio di Ercole, con le colonne allora “rovinate tutte assieme, atterrate forse da un terremoto, allineate in ordine regolare sul suolo”. Ed infine il Tempio di Esculapio, con le mura in parte comprese in un santuario, ed il sepolcro di Ferone, da cui “si abbraccia con la vista l’area in cui sorgeva la città antica, le reliquie della cerchia delle mura e le rovine dei templi”.
“Tutte testimonianze di un’epoca nella quale lo stile dorico aveva raggiunto la perfezione”. Goethe è veramente soddisfatto di questo suo tuffo nel mondo classico, in cui ha potuto ammirare, in alcune delle sue massime espressioni, l’armonia, la maestosità, l’eleganza dell’arte greca.
“In Sicilia c’è la chiave di tutto”
Il resto del viaggio in Sicilia, per Caltanissetta (“terre fertilissime”), Enna (strade dissestate e triste accoglienza), Catania (tentativo fallito di ascesa all’Etna) e Messina (ancora martoriata dallo spaventoso terremoto del 1783), viene raccontato con meno risalto e partecipazione. Proseguirà poi per Napoli (soggiorno di 20 giorni) e Roma (oltre 10 mesi), ma sarà un secondo passaggio, meno interessante del primo. Rientrerà a Weimar nel giugno 1788. La Sicilia resta per lui la tappa fondamentale del suo viaggio: “Non è possibile formarsi un’idea giusta dell’Italia senza aver visto la Sicilia: qui sta la chiave di tutto”.
Per Goethe è stato “un viaggio in quella terra eminentemente classica in una disposizione d’animo eminentemente poetica, a contatto con una natura che nemmeno tutta l’arte sarebbe in grado di rappresentare con quella magia di tinte, con quella purezza di linee”.