Da Napoli a Genova con Caspar Goethe nell’Italia del Settecento
È il 13 aprile 1740 e Caspar Goethe si accinge a lasciare Napoli (“una gran meraviglia”) con un certo rammarico, accompagnato dall’immagine imponente del Maschio Angioino e dalla leggenda sollazzevole della torre “che guarda il porto”, quella del Beverello, chiamata volgarmente “Bastione delle P……”, perché sarebbe stata costruita con i proventi della “Gabella per le meretrici”.
Tra le meraviglie di Roma
Non è di buon umore, anche perché costretto “dal contratto fatto col suo vetturino” a ritornare per la via Appia, tanto “scabrosa” da fargli rimpiangere l’alternativa di “veleggiare lungo quelle deliziose spiagge” fino ad Ostia, “là dove in poco per terra si va sino a Roma”. Roma infatti è la sua meta principale e le immagini delle antichità classiche, del Colosseo, di Castel S. Angelo, di San Pietro, di Piazza del Popolo e di Piazza Navona (“per la sua bellezza rende estatici tutti”), rimarranno per sempre indelebili nella sua mente e nei suoi racconti, come ricorda il figlio Wolfang.
Goethe padre è soprattutto un bibliofilo ed un collezionista, nonché un severo luterano sempre pronto, soprattutto a Roma, a fare confronti con il culto e la cultura cattolica. Perciò “si lascia appagare” dai saloni della Biblioteca Vaticana, secondo lui “una delle due più grandi e preziose di tutta Europa” (l’altra sarebbe quella di Sua Maestà Imperiale di Vienna), ma è attento a tacciare di “angheria” l’obbligo imposto ancora da papa Gregorio XIII agli ebrei romani “ad ascoltar ogni sabato una predica evangelica” (sorvegliati “da uno sbirro che tocca con la bacchetta chi dorme”) e soprattutto stigmatizza senza remissione le strette regole del Conclave (era morto da poco Clemente XII) che impongono ai cardinali l’isolamento e “la tavola magrissima di pane ed acqua”, ma non impediscono “tanti intrighi”, secondo lui ricorrenti nell’elezione del “luogotenente di Cristo”.
Tante sono “le meraviglie e le curiosità romane” che si imprimeranno nella sua memoria, ma a metà maggio deve intraprendere la via del ritorno, consapevole di aver fatto “quanto la mia capacità e lo spazio di tempo che vi restai permettevano”.
Caspar va piuttosto di fretta ed ha a che fare con le dogane, particolarmente severe quelle fiorentine. Da cultore della lingua del Bel Paese, a Siena coglie con piacere la “perfetta parlata italiana” da parte di “abitanti di garbo e di spirito gioviale”, al punto da affermare con sicurezza: “Chi vuol acquistarsi una bella pronuncia dell’italiano ed impararlo perfettamente, venga qui e non se ne lamenterà mai”.
Tirando dritto per Bologna, dove aveva già inviato le sue “robe” a dorso di mulo, si trova ad affrontare “gli orribili monti fiorentini”, armato “di pazienza e danari” e rassegnato all’andatura “da lumaca” della “posta a cavallo”.
A Venezia le smanie per la villeggiatura
Le impreviste lentezze lo fanno giungere a Venezia, per gustare una volta di più le sue malìe, solo ai primi di giugno, senza tener conto che “dopo Carnevale e la Scienza (festa dell’Ascensione e dello Sposalizio di Venezia col mare) la città pare esser priva d’ogni vivente per le strade e nei luoghi pubblici”. E se ne dà subito una ragione: “Le dame, godendo in tempo di maschere pienissima libertà, vanno svolazzando fuori dai loro nidi, ma, finito il Carnevale, in parte si ritirano in campagna o sulle rive della Brenta, dove hanno poderi e casini, in parte restano in casa per la gran calura”.
Ha comunque modo di dilettarsi “di questa inclita città”. Bazzica a Palazzo Ducale e scopre che, “avendo la Repubblica sempre a che fare con la Porta Ottomana, tiene sempre a disposizione otto interpreti ed otto insegnanti di lingua turca”. Riesce a scandalizzarsi, riconoscendosi come “il solito moralista”, per i modelli nudi utilizzati nelle Accademie di pittura: “E poi si pretende che la Vergine, copiata da una di queste perdute, faccia dei miracoli”. E conclude in bellezza, “dopo aver goduto onestamente infiniti divertimenti”, con una gita in burchiello tirato da cavalli lungo la Riviera del Brenta, costellata di ville venete, in compagnia di 12 persone tutte tedesche, “in gran parte conti e baroni”, per partire infine l’indomani per Milano.
La bella milanesina
Non ha una gran bella impressione della città, specie se “pareggiata con altre belle città italiane”, ma apprezza come sia riuscita a riprendersi dopo “essere stata distrutta e saccheggiata per quattro volte”. Certo che “le strade sono storte e strette e le case ed i palazzi sono provveduti di finestre di carta oleata: il che fa un cattivo aspetto in una grande città popolatissima, di più di 30.000 anime”.
Caspar, però, sa cogliere un grande pregio nella gente: “Il sesso donnesco è stimato il più bello, perché composto in percentuale da cinque donne belle contro una di brutta”. Donne più libere, “non accompagnate da cicisbei, ragazze che restano nelle case paterne sinché siano maritate e non rinchiuse fra le mura di un oscuro chiostro come fanno i gelosi Veneziani e Napoletani”.
Il suo giudizio tanto positivo per le donne milanesi è probabilmente condizionato da una sua relazione sentimentale con una giovane cittadina, durata qualche mese ed attestata da 16 lettere pubblicate in appendice al diario. Una relazione fatta di sguardi dai balconi, di biglietti scambiati e del rapporto epistolare.
Il soggiorno milanese di Caspar, segnato da questo romantico idillio, non è scalfito nemmeno dalla macabra cerimonia dell’impiccagione di due delinquenti in piazza Duomo, accompagnati al supplizio dalla Confraternita della Carità e da un padre francescano tra urla, canzoni e preghiere.
Genova, l’ultima meraviglia
Suo malgrado deve continuare il viaggio verso Genova, la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda. E dell’ultima tappa italiana conserva un ricordo indimenticabile: “Genova è un luogo che nella polizia, bellezza e situazione superar deve tutte le città del mondo. Le strade strette ma pulite, di pietre quadrate, sono lastricate di roccia, onde si va più in lettiga che in carrozza. Le case ascendono di giù in su, facendo così per la loro disposizione anfiteatrale una vista grata, che nessuna città d’Italia le sarà uguale. Le facciate, poi, sono dipinte di vari colori ed hanno davanti ad esse un terrapieno di aranci, che aumenta di molto la loro beltà”.
Finché giunge il momento della partenza. Dopo aver veleggiato su “ una barchetta a due remi” fino a Sestri ed aver poi camminato tra “selve e montagne piene di aranci, ritornai a casa contentissimo, pieno di queste idee genovesi, che spirano fecondità e delizia”. Ora può partire verso Marsiglia, invocando la protezione di Dio “da ogni infortunio” ed il suo accompagnamento fino alla “carissima patria”. Ed è il 20 agosto 1740.
Goethe padre non è un viaggiatore “vorace di esperienze”, dal gusto estetico raffinato o abituato ad una lettura degli aspetti sociali della vita del tempo, è un tipico borghese del primo Illuminismo, animato da curiosità e profondo amore per l’Italia, e cosciente, come scrive, della dignità del suo diario: “Quantunque siano di poca stima queste mie osservazioni, sono però certo che tra di loro si vedranno molti passi finora sconosciuti ed in altre descrizioni invano ricercati”.