Conversazione con Don Gianni De Robertis, direttore generale uscente della Fondazione Migrantes
Abbiamo incontrato a Francoforte in Delegazione don Gianni De Robertis, direttore generale uscente della Fondazione Migrantes, organo pastorale della Cei: “Al mio rientro in Italia, scriverò una lettera in cui farò memoria di questi anni perché ognuno di noi fa, per così dire un pezzetto di strada, e poi la nostra vita è un po’ come una staffetta e quindi questi cinque anni non sono solo eventi, ma un pezzo di cammino cominciato prima di me e che deve continua dopo di me”.
Ci sarà un secondo mandato per Lei o ha altri progetti?
Credo che ognuno di noi cerchi di essere disponibile ad andare là dove il Signore ci manda. È molto bella l’immagine del centurione che chiede a Gesù la guarigione del suo figlioletto: “Di’ soltanto una parola e il mio bambino sarà salvato”, perché come pagano non si sente degno e manda i suoi servi. “Anche io che sono solo un centurione” prosegue il racconto del Vangelo “se dico ai miei soldati ‘va’’, loro vanno, così a maggior ragione ciò vale per quello che dici tu”. È bella questa docilità del servo ad andare là dove il suo Signore gli indica. E quindi cerco anch’io come ogni cristiano di comprendere ciò che il Signore mi chiede.
Don Gianni racconta che questa nomina a direttore generale fu inattesa per lui anche perché non proviene da studi sull’immigrazione, era parroco da molti anni nella diocesi di Bari.
Un giorno chiamò il mio vescovo dicendomi “guarda che a Roma hanno fatto il tuo nome e io sarei contento se tu andassi in questo servizio”. Dentro di me da tempo sentivo che era giunto il momento di cambiare, ero felicemente parroco nella stessa parrocchia da 25 anni, però sentivo che questo cambiamento sarebbe stato opportuno per la parrocchia e per me. E quindi ho accettato. Adesso, giunto alla fine di questo mandato, il mio vescovo mi ha chiamato e quindi penso che tornerò nella diocesi, a quello che è il mio compito più connaturale. Tra l’altro dico scherzando che hanno scelto come direttore generale l’unico pugliese che non ha nessun parente emigrante, anche se io ho un cognome spagnolo, la “erre” francese e sono piuttosto scuro, il colore è arabo, sono un misto.
Qual è stata l’esperienza che più l’ha segnata in questi anni e qual è oggi il ruolo della Fondazione Migrantes?
La Migrantes ti getta in tante realtà, ed è vastissimo il compito di questo ufficio perché dall’’87 non si occupa più soltanto degli emigrati italiani all’estero, che già questo è di per sé un universo, ma ci occupiamo degli immigrati in Italia, dei rifugiati, dei Rom e della gente dello spettacolo viaggiante e quindi per me questo ha significato entrare in contatto con questi mondi. Credo che gli incontri siano molto importanti perché sono gli incontri che ci cambiano e che ci fanno comprendere. Purtroppo la pandemia in questi due anni mi ha impedito i viaggi all’estero però ricordo che la prima estate del mio mandato avevo sostituito un missionario nella periferia di Londra proprio per avere il contatto con le comunità in Europa. Mi rimarranno i racconti degli anziani in Belgio che hanno lavorato nelle miniere e che però vedo sereni perché dopo tutta una vita di sacrifici hanno fatto studiare i loro figli, si sono sposati, hanno potuto comperare una casa, mentre invece parlando con tanti giovani italiani all’estero li vedo spesso arrabbiati con un misto di odio e amore verso l’Italia, perché hanno sentito che in Italia non c’era posto per loro. Mi diceva un ragazzo napoletano che lavora in ristorante a Londra “io qui sto benissimo, guadagno cento sterline al giorno, non faccio un minuto di straordinario che non sia pagato, però parlo quattro lingue, sono laureato in filosofia, per me non c’è stato posto in Italia”. È una realtà quella dell’emigrazione, spesso drammatica ma ricchissima di umanità. E dico spesso che mi trovo meglio con gli italiani all’estero che con gli italiani in Italia perché gli italiani in Italia li vedo spesso un po’ “seduti”, a volte un po’ arroganti a dare tanti giudizi sugli immigrati. Le cose che non lamentiamo all’estero noi le facciamo con gli immigrati in Italia. In questi anni come direttore generale ho portato quello che mi contraddistingue, il mio essere soprattutto prete perché la Migrantes è una rete di apostoli, una condivisione di ideali che va coltivata. È come se avessi continuato a fare il parroco non in una parrocchia territoriale, ma in una parrocchia sparsa nel mondo.
Lo scorso novembre si è tenuto a Roma il Convegno Europeo Migrantes “Gli italiani in Europa e la missione cristiana”. Ora sono stati pubblicati gli atti che contengono gli interventi dei relatori, i momenti di riflessione spirituale, le omelie e le riflessioni dei partecipanti sul futuro delle comunità cattoliche italiane in Europa. Per Lei che lo ha organizzato che finalità ha avuto il convegno?
Queste missioni cattoliche italiane sono, per usare un’immagine, come un bellissimo edificio antico, nobile, che ha bisogno di una profonda ristrutturazione, perché si sta sgretolando. Quindi la finalità di questo convegno era rimettere all’attenzione del paese ma anche della chiesa italiana questa realtà dell’emigrazione italiana che purtroppo molti pensano sia un capitolo del passato, mentre i nostri rapporti Migrantes mostrano che negli ultimi anni ha ripreso in maniera molto consistente. Se oggi c’è una vera questione nazionale in Italia questa è la continua fuga dei nostri giovani che sta portando soprattutto le zone interne dell’Italia allo spopolamento; ciò si ripercuote anche nella Chiesa italiana: è difficilissimo trovare un buon prete che il suo vescovo invii per accompagnare i giovani italiani, che se ne sono andati, e aiutarli ad inserirsi nelle chiese locali. La seconda finalità è che queste comunità hanno bisogno in un cambiamento d’epoca, come dice papa Francesco, per rinnovare il proprio volto. Un segno di questo ripensamento è nella ricerca di un nuovo nome, molte non si chiamano più missioni cattoliche italiane ma si chiamano comunità, e devono pensarsi molto più inserite nelle chiese locali e anche molto più missionarie, non per difendere semplicemente la fede cattolica e l’Italianità ma per essere testimoni del Vangelo in un continente che è diventato molto secolarizzato, dove il cristianesimo fa fatica ad esistere. Certamente il nostro convegno di novembre è stato il momento per cominciare a pensare insieme il nuovo volto senza che venga cancellata la storia e la tradizione di ciascuno. La tunica di Gesù, per usare un’altra immagine, era senza cuciture ed era un pezzo unico, per i padri della Chiesa era l’immagine stessa della chiesa nella sua unità, i cui fili di diverso colore rappresentano le differenze. A volte omologhiamo tutto mortificando i doni dello Spirito santo oppure isoliamo le nostre differenze, assolutizzandole in tante chiese che sono incapaci di dialogare. La fida di oggi in un Europa sempre più cosmopolita è dare corpo a una chiesa che sappia parlare a questa società e le nostre missioni cattoliche devono entrare in questa fase di cambiamento.