Con Goethe da Bolzano a Malcesine
Non riesce a capire nemmeno lui, Wolfgang, il perché, ma è come spinto da tanta fretta, al punto che, una volta passato il Brennero e ristorato ad una locanda, decide di proseguire il viaggio di notte, finché giunge a Brixen e poi a Colman. Ed ecco che si apre ai suoi occhi il paesaggio della “valle ove giace Bolzano, con le colline ai piedi dei monti coltivate a viti, tra filari lunghi e bassi sostenuti da pali ed i grappoli già neri, che maturano al calore del suolo sottostante”.
Il sole è già alto, “splendidissimo”, l’aria dolce e mite e gli ambulanti della fiera di Bolzano nel loro aspetto rivelano tutti “contentezza e ben essere”. Wolfgang vorrebbe soffermarsi, ma “quell’irrequietudine” non gli dà tregua e si affretta a ripartire, contento delle sensazioni nuove che sta provando: “Io prendo di bel nuovo interessamento alle cose di questo mondo e la mia vista è pronta ad afferrare rapidamente quanto si offre allo sguardo e il mio animo può esercitare le sue facoltà oppresse ed irrigidite”.
Così ammira l’ampia ed ubertosa vallata dell’Adige e tutte quelle piante, che “qui hanno maggiore forza, maggiore vita… e si crede di bel nuovo in un Dio”. Nessun accidente di viaggio gli può essere di turbamento, di fronte a quello spettacolo della natura, ai tanti alberi di gelsi, di pomi, di peri, di castagni, di noci, dove le erbe spontanee “si arrampicano piene di vita sui muri”, e dove le trecce voluminose delle donne ed i petti nudi degli uomini, ed i buoi bellissimi che tornano dal mercato e gli asinelli carichi, tutto ricorda un quadro di Enrico Roos”.
Uno sguardo di sfuggita a Trento
Goethe continua ad andare di fretta ed a Trento dedica solo una sommaria descrizione, limitata alla chiesa dei Gesuiti ed al “palazzo del Diavolo”. Sembra quasi ignorare i bei palazzi rinascimentali di via Larga e la splendida piazza del Duomo, solo un accenno ad alcune “case nuove, di buona costruzione, in alcune strade”.
La chiesa è quella di Santa Maria Maggiore, dove, in un ambiente silenzioso e tenebroso, compare ad un tratto, la fosca figura di un anziano, dall’abito nero, vecchio e logoro, che brontola a mezza voce e scaglia anatemi contro il papa Clemente IV, reo di aver sciolto l’ordine dei Gesuiti tredici anni prima, “senza pagare loro quanto avevano speso per la chiesa e per il seminario annesso”. Una scena teatrale, che resta impressa nell’animo di Wolfgang, spettatore non visto.
Un certo gusto “noir” Goethe lo dimostra anche nella citazione del “palazzo del Diavolo”, che secondo la leggenda sarebbe stato costruito dal diavolo in una sola notte ed invece fu costruito in un solo anno (1602) da Giorgio Fugger, banchiere di Augusta e sposo di Elena Madruzzo.
Tra vigneti e muriccioli a secco
È questo il paesaggio in cui si trova immerso appena uscito dalla città, al tramonto del sole, “accompagnato dal canto dei grilli”. Giunge in serata a Rovereto, “dove si cangia lingua” da parte del suo postiglione, “pretto italiano” (uno “stockwelsh”) e del suo albergatore (albergo “alla Rosa”, che esiste ancor oggi). “Mi rallegro tutto nel pensare che quind’innanzi quella bella lingua dovrà essere la mia lingua abituale”.
Goethe aveva già da tempo deciso di concedersi la deviazione verso il lago di Garda, sicuro di trovare nuove emozioni e gioiose scoperte. Il primo annuncio è l’incontro con il paese di Torbole, “un piccolo villaggio all’estremità settentrionale del lago, con un piccolo porto naturale” ed “un anfiteatro naturale di colline”, dove trova per la prima volta “i fichi bianchi” (i bardolini) ed “i primi alberi di olivo, carichi di frutti”.
Appena trovata la sistemazione in albergo, porta il suo tavolo sulla corte e di là prende uno schizzo dell’incantevole vista. Ed il giorno dopo, scendendo a piedi verso il lago, scopre i modi di vita propri di un ambiente agreste: “Gli uomini vivono alla buona, le porte non hanno serrature, ma secondo l’albergatore potevo stare tranquillo per ogni cosa mia, avessi pure recato meco diamanti; le finestre non hanno vetri, sono chiuse con fogli di carta inzuppati nell’olio. Mancano anche le cose più indispensabili, si vive allo stato di natura”. Al punto che, “avendo chiesto di poter soddisfare un certo bisogno, il garzone mi additò la corte al basso, dove avessi voluto”.
Quello della mancanza dei gabinetti e dei vetri alle finestre doveva diventare un “topos” per i viaggiatori del tempo, ma il nostro viandante lo accenna appena. Il poeta viene attratto da trote “stupende e dal gusto delicatissimo e dai fichi e dalle pere, che non possono che essere ottime qui, dove vivono pure gli agrumi”. E soprattutto ritrova la vena poetica e riprende la sua “Ifigenia in Tauride”.
Ci mancava l’avventura, inattesa e tragicomica
L’attrattiva di un giro in barca sul lago è grande ed il mattino seguente Goethe parte in barca con due rematori alla volta del basso Garda. Il mattino è stupendo, l’atmosfera tranquilla. Si offrono alla sua vista “i giardini disposti su vari piani e piantati ad agrumi” e lui si sente appagato da quella vista “bella, ricca e piacevole”. Giungono di fronte a Malcesine, primo villaggio veneziano, sulla sponda orientale del lago, quando improvviso comincia a soffiare un vento impetuoso che li costringe a riparare nel porto. L’attenzione del poeta è tutta per il castello, “che sporge sul lago e fa una bellissima vista”, anche se è ormai abbandonato, senza porte, né guardie né custodi. Goethe vorrebbe fissarlo in un disegno, come aveva già fatto per altri paesaggi dalla locanda di Torbole e dalla barca e come, non esistendo ancora la fotografia, erano soliti fare anche altri viaggiatori.
Attorno a lui cominciano a raccogliersi alcuni curiosi, quando “un tale, dall’aspetto poco rassicurante”, gli strappa il foglio e provoca l’intervento del podestà e del suo “attuario”, più che mai allarmati. A nulla valgono le spiegazioni di Goethe, che quel castello non aveva proprio i caratteri di una fortezza, ma piuttosto di una rovina. Il podestà, “dalla fisionomia priva del lampo dell’intelligenza”, gli oppone la ragione che quelle rovine “segnavano la linea di confine tra la Repubblica veneta e l’Impero d’Austria”. L’attuario poi faceva notare come “l’Imperatore Giuseppe fosse un principe irrequieto, che poteva nutrire disegni ostili contro la Repubblica veneta e che io potevo benissimo essere un suo emissario incaricato di studiare i confini”.
Il poeta comincia quasi a divertirsi di fronte a tali sospetti e spiega che non era affatto suddito dell’Imperatore ma cittadino di una Repubblica, “che si governa da sé”, prestigiosa “per attività di commercio, per ricchezza e per saviezza” e che lui era nato a Francoforte sul Meno. A quel punto, “per chiarire ogni cosa”, spunta un certo Gregorio, che aveva lavorato parecchi anni a Francoforte, a servizio della casa Bolongaro, conosciuta anche da Goethe. Dopo una cordiale conversazione in tedesco, Gregorio assicura il podestà che “il signore è una persona dabbene, agiata e colta, che viaggia per la sua istruzione e che bisogna lasciarlo andare con ogni dimostrazione di cortesia, perché egli possa dire bene di Malcesine”.
Così il poeta “ottiene il permesso di girare tutto il paese , a suo arbitrio”, in compagnia di mastro Gregorio e del padrone della locanda, che però gli fanno capire il rischio corso di essere arrestato da cotali autorità.
Tornato alla locanda, “riandando all’avventura del mattino”, Goethe conclude la giornata con una riflessione, “che l’uomo è una creatura strana, perché sovente si rende pericoloso quando potrebbe godere della buona compagnia e ciò solo per il capriccio di voler ridurre il mondo a modo suo”… (continua)