Nel 2025 si festeggeranno i 70 anni dell’accordo italo-tedesco sull’invio di forza lavoro in Germania
La storia dell’emigrazione italiana in Germania ha inizio già nella primavera del 1953 dove funzionari dei governi italiano e tedesco (Repubblica federale tedesca) cominciarono a incontrarsi ufficialmente per parlare dell’arrivo di lavoratori italiani. Erano le premesse dell’accordo del 1955, che regolerà l’arrivo di forza lavoro in Germania. È una storia, quella dell’emigrazione italiana, che il CdI ha sempre raccontato e che continuerà a raccontare perché fa parte del Dna del giornale. L’emigrazione è storia dell’Italia e storia della Germania che gli storici continuano a investigare e ricercare. Francesco Vizzarri è un giovane storico, si occupa della storia dell’emigrazione italiana in Germania e lavora come ricercatore a Gießen, presso la cattedra di Storia Contemporanea nel Dipartimento di Storia e Scienze Culturali. Gli chiediamo come è cambiato il modo di raccontare la storia dell’emigrazione.
La storia dell’emigrazione, in particolare di quella italiana, è entrata a far parte della storia della Germania dal dopoguerra o resta una ricerca di nicchia?
L’emigrazione, inclusa quella italiana, è un campo di ricerca sempre più rilevante nella storia della Germania dal dopoguerra. L’emigrazione ha svolto un ruolo importante nella ricostruzione economica del Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale e nella formazione di una società multiculturale e multilingue in Germania. Diversi istituti universitari in Germania si occupano della storia dell’emigrazione, sia italiana sia di altre nazionalità. Nell’ambito della ricerca storica e sociologica sulle migrazioni in Europa e in particolare nella Repubblica Federale di Germania sono “pionieri”, in un certo senso, gli studiosi riunitisi dagli anni Ottanta e Novanta intorno allo storico Klaus Jürgen Bade, che può considerarsi a tutti gli effetti fra i massimi esperti di fenomeni migratori in Europa. Bade avviò, alla fine degli anni Settanta, la sua scuola di studi interdisciplinari sulle migrazioni in Europa, poi divenuta ufficialmente all’inizio degli anni Novanta lo IMIS (Institut für Migrationsforschung und Interkulturelle Studien). L’istituto si concentra sui vari aspetti della mobilità spaziale delle persone, adottando un approccio interdisciplinare, unendo diversi ambiti di ricerca sul tema migratorio, tra cui soprattutto storia, antropologia, sociologia, economia e scienze politiche, ma anche educazione, formazione e cultural studies. Accanto all’attività di gruppi e istituti di ricerca universitari, un grande contributo allo studio delle migrazioni in Germania è stato ed è fornito tramite progetti individuali di dottorandi, beneficiari di borse post-dottorato e ricercatori strutturati. Questi continuano a produrre interessanti risultati, sia in ricostruzioni storiche sia sulla storia delle migrazioni italiane a livello urbano e locale (ricordo, fra gli altri, i contributi di Grazia Prontera su Monaco di Baviera, quelli di Edith Pichler per Berlino e le recenti ricerche di Bettina Severin-Barboutie per Stoccarda). Vi sono poi studi più vasti sulle relazioni internazionali e sui media italiani in Germania negli anni Settanta (per esempio gli studi di Roberto Sala su Radio Colonia e sulla stampa di emigrazione in Europa e nella RFT).
Come è cambiato negli ultimi decenni l’approccio alla storia dell’emigrazione, sia sul piano della ricerca storica, delle fonti selezionate, ma anche delle narrazioni sull’emigrazione italiana in Germania?
Negli ultimi anni, la storia orale e il transnazionalismo sono diventati approcci sempre più importanti negli studi sulle migrazioni. La storia orale si concentra sulle esperienze e le vicende individuali o collettive dei migranti, raccolte attraverso interviste o testimonianze. Con questo approccio si ottengono informazioni preziose sulle esperienze personali degli emigranti, che spesso non sono documentate in altre fonti storiche. Inoltre, la storia orale fa risaltare la diversità di voci e prospettive entro le comunità migranti e può contribuire a sfatare stereotipi e semplificazioni spesso presenti nelle narrazioni dominanti. Il transnazionalismo invece si concentra sulla continua interazione e connessione tra le comunità migranti e il loro Paese d’origine. Questo approccio vede la migrazione come un processo che coinvolge non solo il Paese di destinazione, ma anche quello di origine, e che produce forme di cittadinanza transnazionale. Il concetto di “transnazionalismo” aiuta a rilevare la complessità delle identità migranti e l’importanza di considerare le connessioni stabilite al di là di uno specifico contesto nazionale per capire le esperienze e le pratiche dei migranti. Le suddette prospettive di ricerca permettono di far emergere approcci globali e comparativi e contribuiscono a sfidare e decostruire stereotipi e semplificazioni, evidenziando la complessità delle identità migranti e le dinamiche di interconnessione alla base dei fenomeni migratori. L’adozione di queste prospettive nello studio delle migrazioni italiane in Germania ha permesso di superare (almeno in parte) quel “nazionalismo metodologico” che spesso ha accompagnato analisi dei fenomeni della migrazione italiana in Europa riducendole quasi a capitoli delle storie nazionali. Tali approcci finivano con il relegare i fenomeni migratori a un ruolo secondario rispetto alla storia dei partiti politici e dei governi del Dopoguerra. Il progressivo spostarsi degli interessi e degli ambiti di ricerca da queste grandi narrazioni lineari ad analisi più puntuali di determinati fenomeni sociali, delle dinamiche familiari, delle reti sociali degli italiani in Germania ha permesso di inquadrare il fenomeno della migrazione in Germania non solo (o non più unicamente) come storia “italiana” ma come parte fondante della storia tedesca ed europea. Le storie delle comunità italiane locali sono dunque sempre di più viste e interpretate come parti consustanziali del tessuto sociale tedesco, non più come “comunità separate” dal contesto urbano e regionale. Ciò permette di rilevare processi di multiculturalismo, di integrazione e di inclusione sociale che rispecchiano il dibattito storiografico odierno, più sensibile a queste tematiche e più aperto alla pluralità di voci e prospettive di ricerca.
Quali sono per lei le fonti più interessanti per scandagliare il complesso fenomeno emigrazione? E quali sono i risultati più sorprendenti?
Le tradizionali fonti d’archivio sono state per molti anni quelle prodotte dalle istituzioni (si pensi ai fondi del Ministero degli Affari Esteri, così come i versamenti degli Uffici Provinciali del Lavoro presso gli Archivi di Stato regionali). Tuttavia, di recente si sta dando particolare rilievo alle fonti cosiddette “in prima persona” (in tedesco gli “Ego-Dokumente”). Fonti del genere sono ad esempio: autobiografie scritte dai migranti, diari, lettere inviate alla famiglia in Italia, cartoline e fotografie. La loro rilevanza risiede nel fatto che questi documenti forniscono informazioni molto importanti non solo sui contesti professionali, familiari e privati dei migranti, ma anche dati preziosi sulla percezione di sé e sulla rappresentazione dei soggetti storici nel loro ambiente. Poter sfogliare il diario di un migrante italiano in Germania permette di analizzare meglio le strategie attuate dai migranti, la percezione degli spazi, delle difficoltà, degli affanni di un viaggio di sola andata, con tutte le angosce che può comportare. Consente inoltre di far emergere aspetti della vita quotidiana, come le difficoltà sul posto di lavoro e in generale nelle relazioni sociali, ma anche momenti gioviali e di incontro culturale. Questa tipologia di fonti offre poi la possibilità di approfondire la conoscenza dei processi di integrazione, dei meccanismi di superamento delle esclusioni sociali, delle strategie personali di adattamento, del grado di attivismo e partecipazione dei migranti italiani in associazioni e sindacati. Le “fonti in prima persona” sono importanti – per dirla breve – proprio perché sono fonti “dal basso”, che rilevano una dimensione soggettiva sostanzialmente mancante nella ricostruzione storiografica tradizionale basata solo su documenti prodotti da istituzioni ed enti statali. Negli ultimi anni, questo tipo di approccio di ricerca “dal basso” e l’utilizzo degli Ego-Dokumente si è rivelato molto utile nella realizzazione di progetti museali e di esposizioni sul tema della migrazione. Questi hanno visto la partecipazione diretta dei migranti non solo nella raccolta dei materiali, ma anche nell’organizzazione degli eventi. Mi permetto di ricordare, fra gli altri, il progetto “Percorsi di vita / Lebenswege”, realizzato dall’Institut für Zeitgeschichte und Stadtpräsentation della città di Wolfsburg. L’esposizione presentava storie e biografie migratorie dal punto di vista dei migranti, rappresentandole in forma di fumetto e di racconto illustrato. Le italiane e gli italiani residenti a Wolfsburg che hanno contribuito alla mostra hanno messo a disposizione i loro documenti (di notevole importanza il materiale fotografico), ma hanno anche collaborato strettamente con i curatori condividendo la loro “conoscenza migrante” in lunghe interviste audiovisive, utilizzate sia per la mostra che per ricostruzione delle loro biografie e dei loro percorsi professionali e familiari.
Alcuni suoi studenti sono italiani di seconda o terza generazione. Che rapporto hanno con questa doppia identità, che li porta a essere in un certo senso oggetto di studio e soggetto che studia, ovvero come si relazionano alla storia familiare e all’approccio storico, metodologico dove l’emigrazione diventa materia di studio?
Nei miei seminari cerco di adottare un approccio che, pur rispettando la rigorosità delle riflessioni e del ragionamento storiografico, tiene conto delle motivazioni, degli interessi e dei motivi personali che portano gli studenti a interessarsi di un argomento anziché di un altro. Molti degli iscritti ai miei corsi sono figli o nipoti di lavoratori migranti provenienti dalla Turchia, dal Kurdistan, dai Paesi dell’Europa orientale; oppure sono pronipoti e nipoti dei primi Gastarbeiter italiani emigrati in Germania negli anni Sessanta e Settanta. Sia nelle discussioni in seminario, sia nei colloqui individuali, emerge un forte interesse a scoprire il proprio passato familiare, cercando tuttavia di inquadrarlo in un contesto storico-sociale più ampio. D’altra parte è evidente come la decisione di iscriversi a seminari sulla storia delle migrazioni sia fortemente legata anche al desiderio di capire meglio i fenomeni sociali attuali, come le forme di razzismo e di xenofobia diffuse in Germania e nei Paesi occidentali. Ciò anche per sviluppare un senso critico nei confronti della propaganda e delle narrazioni anti-migranti su cui alcuni partiti politici hanno costruito il proprio consenso elettorale. Mia intenzione è far nascere nei miei studenti un senso critico nella lettura di fonti del passato, ma anche la capacità di ragionare criticamente e democraticamente, in una aperta discussione con gli altri, sul nostro comune passato e sulla storia “tedesca”; uso le virgolette perché quest’ultima è sempre stata anche vicenda di quelle minoranze culturali, etniche e religiose perfettamente integrate nel tessuto sociale, ma che hanno avuto troppa poca visibilità.
Tornando alle fonti per gli studi sull’emigrazione italiana in Germania, che posto spetta al Corriere d’Italia e perché?
Non è esagerato affermare che il Corriere d’Italia costituisce una delle fonti principali per lo studio della storia dell’emigrazione italiana nella Repubblica Federale Tedesca dal Secondo Dopoguerra a oggi. Il Corriere ha pubblicato notizie, articoli e annunci sugli italiani in Germania e sulla loro vita quotidiana, offrendo una preziosa testimonianza storica sull’esperienza migratoria italiana e delle relazioni degli italiani in Germania con la comunità tedesca e con l’Italia. Inoltre, ha svolto un ruolo attivo nella comunità italiana in Germania, fornendo un’importante piattaforma di comunicazione e di organizzazione per gli italiani in Germania. La rilevanza del Corriere d’Italia e della sua storia è stata messa in evidenza già in analisi storiografiche. Ricordo, fra le altre, i saggi di Roberto Sala e, soprattutto, la monografia di Vito Lupo sulla storia delle comunità cattoliche italiane in Germania nel Secondo Dopoguerra, nella quale l’autore dà ampio spazio alle origini del giornale. Accanto all’importanza del Corriere come oggetto di studio, è evidente anche la sua centralità come fonte e come “bacino” di notizie, informazioni e dati di rilievo storico. In questa sua funzione, il Corriere si costituisce come “luogo di passaggio” per ottenere informazioni su determinati eventi culturalmente rilevanti delle comunità italiane in Germania, così come per ritrovare articoli, editoriali, necrologi, anniversari, notizie biografiche e percorsi di vita dei migranti.
Il significato del Corriere d’Italia come fonte di ricerca ha portato il precedente editore, padre Tobia Bassanelli, insieme alla direttrice Licia Linardi, a pensare a una digitalizzazione di tutti i numeri del giornale (e dell’archivio della Delegazione), che è stata affidata a lei. Si tratta di un lavoro di archiviazione digitale, come ha proceduto?
Effettivamente ho avuto l’onore di essere coinvolto nel progetto di digitalizzazione dell’archivio storico del Corriere d’Italia, che comprende tutti i numeri pubblicati dal 1951 fino ad oggi. L’obiettivo è quello di rendere accessibile una fonte preziosa per gli studi sull’emigrazione italiana in Germania e sulla storia della comunità italiana in terra teutonica. La digitalizzazione dell’archivio del Corriere d’Italia consente di accedere a un vasto insieme di informazioni e documenti che altrimenti sarebbero stati difficili da trovare e da usare per la ricerca storica. Per quanto concerne il metodo di lavoro, si è deciso di seguire un criterio “storico”; alle tradizionali scansioni in bianco e nero sono state preferite riproduzioni fotografiche a colori delle singole facciate, per rispettare sia il testo sia i colori delle stampe e della grafica non solo nelle fotografie dei servizi, ma anche nelle pubblicità, stampate a colori dagli anni Ottanta. Le riproduzioni a colori permettono anche di cogliere meglio sia i cambiamenti nello stile e nell’estetica, sia quelli nell’impaginazione, che per esempio negli anni Ottanta passa da un formato “classico” a uno tabloid, dunque più piccolo e compatto. Alla fine della fase di scansione, le annate sono state organizzate in file PDF per una consultazione più agevole dei contenuti. Nei prossimi mesi si procederà a realizzare il riconoscimento OCR del testo. Questo procedimento permette di rilevare i caratteri di un documento per facilitare la ricerca di nomi di persone o di località all’interno di tutte le annate, con enormi benefici in termini di tempo per chi vorrà cercare autori o nomi di articoli senza conoscerne il periodo.
Nel corso del progetto, ha avuto modo di consultare quasi tutti i numeri del periodico. Che cosa l’ha maggiormente colpita?
Sebbene vi siano molti aspetti interessanti, alcuni elementi in particolare hanno suscitato la mia attenzione. Da un lato gli editoriali e gli articoli sulla politica e sulle questioni sociali e sindacali, che assumono un rilievo notevole soprattutto nel periodo in cui direttore fu don Enzo Parenti (1968-1975), considerato non a caso il momento più politico del Corriere d’Italia. Negli editoriali Parenti è riuscito a descrivere molto bene le trasformazioni sociali in corso nelle comunità migranti italiane in Germania, soprattutto nel contesto di mobilitazione sindacale e di progressiva politicizzazione del mondo dell’associazionismo italiano. Allo stesso tempo in questa fase il Corriere ha saputo dare rilievo alle questioni politiche italiane, lasciando ampio spazio agli avvenimenti di politica italiana, come quelli legati agli anni di Piombo, al Compromesso storico e, negli anni a seguire, al difficile periodo di transizione dei partiti e in generale della politica italiana. Dall’altro lato, non posso non menzionare le fotografie in accompagnamento agli articoli e i veri e propri reportage fotografici degli anni Settanta e Ottanta, molti dei quali realizzati da Toni Azzato, per lungo tempo collaboratore della testata. Egli ha saputo cogliere, in particolare negli anni Settanta, i cambiamenti sociali, realizzando servizi fotografici su convegni, feste delle Missioni, gite scolastiche e iniziative culturali nelle comunità cattoliche italiane in Germania. Credo che la qualità più significativa del Corriere sia proprio la pluralità dell’informazione che le varie redazioni hanno portato avanti.