Sotto il silenzio delle foglie autunnali: Riflessioni sulla perdita di senso di appartenenza nazionale e il sacrificio dimenticato
Anche quest’anno, come ogni anno nella prima domenica di novembre, in occasione della Festa delle Forze Armate e dell’Unità Nazionale, si è celebrata la memoria dei nostri caduti presso il cimitero di Öjendorf, dove sono sepolti circa 6000 militari italiani.
Quest’anno guardando le autorità schierate, il picchetto, le corone da porre ai piedi della grande croce, dietro non c’era nessuno. Non c’erano le persone, le associazioni, se non poche sparute persone. Il 4 novembre è ufficialmente la “Giornata delle Forze Armate e dell’unità nazionale” ma – ridotte le forze armate – dov’è l’“Unità Nazionale” e – soprattutto – come viene coltivata?
Certamente è positivo che nessuno oggi si sogni più di sparare agli austriaci ed abbiamo tutti in tasca il comune passaporto europeo, ma ci sembra si sia anche dissolto non tanto l’aspetto “nazionale” – che salta fuori al massimo per le partite di calcio degli azzurri – ma anche il senso di appartenenza, di coesione, di comunità, soprattutto tra i connazionali all’estero.
Questo non è un bene, ma il risultato dell’aver confuso per molti anni non solo il concetto di nazione con il nazionalismo, ma anche per aver voluto abbattere scientemente ogni simbolo, ricorrenza, sentimento, principio di appartenenza ad una comunità. Così il senso del dovere, di compartecipazione, di reciproca appartenenza nel bene e nel male ad un popolo, si è volatizzato e si è perso.
Si può dire che ciò è avvenuto forse perché questo era un obiettivo della fu sinistra italiana, cui rispondeva una destra che lo ammantava di eccessivo nazionalismo e quindi progressivamente usciva dal tempo; fatto sta che il concetto di appartenenza si è perso. Cosa in cambio ci abbiamo guadagnato? Forse nulla e quindi ci resta solo la perdita.
Appartenere ad un popolo, ad una società, ad una comunità che abbia radici in un preciso territorio sia cittadino, regionale ma soprattutto nazionale impone non solo di accettarne le leggi, ma anche di sentirsi compartecipe alla sua crescita e alla sua evoluzione e – vocabolo desueto – capire che a volte per ottenerlo servono sacrifici.
Quei nomi scritti su tutte quelle lapidi in quel cimitero in Hamburg, rappresentano un esempio estremo di sacrifico e di solito non sono nomi di eroi, ma di ragazzi spinti nelle trincee a sparare ad altri ragazzi “con la divisa di un altro colore”, come il Piero cantato da Fabrizio De André.
Certamente c’erano e ci sono tanti altri modi di “servire” il proprio paese, quello che si chiamava “Patria” nome oggi antiquato e nascosto, celato quasi con diffidenza, timore, sospetto.
Eppure, una comunità cresce e si cementa proprio soprattutto nel momento del sacrificio che – come i doveri – si tenta appunto di nascondere ed esorcizzare all’insegna del futile, del sorriso forzato, dei consumi inutili pur ammantati spesso di pseudo modernità ecologica od ambientale. Siamo strani: si litiga o si discute di riforme costituzionali, di presidenzialismo o premierato, di parlamentari eletti o meno dai partiti, ma non si discute di noi, degli italiani.
Pensieri che in un giorno grigio e in un cimitero semivuoto davanti ad un monumento ai caduti scivolano via come le foglie di quest’autunno arrivato di colpo, eppure ti lasciano in bocca un sentimento amaro, di dubbio e di tristezza.