Il MAECI, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ha acquisito competenze che sino a ora erano del MiSe, il dicastero dello sviluppo economico. Sulla Farnesina ricadono ora, pertanto, tutte le incombenze della diffusione nel mondo del Made in Italy, del commercio estero con tutto quello che comporta a livello di accordi internazionali, bilaterali.
La Farnesina gestisce ora anche gli Istituti di commercio estero, ICE, dopo aver incamerato ben 250 milioni di risorse finanziare con lo spostamento da un ministero all’altro.
Ora, qualcuno potrebbe anche pensare che, finalmente, nella rete diplomatica e consolare siano presenti funzionari addetti alla guida degli esportatori italiani per piazzare i propri prodotti all’estero. Purtroppo, non è così.
Se un coltivatore di arance siciliane o un produttore di abbigliamento campano o qualche piccolo industriale metalmeccanico lombardo provasse a chiamare uno dei consolati italiani in Germania, Belgio, Francia e altrove, chiedendo consigli, elenchi di potenziali acquirenti o altre informazioni su come piazzare all’estero i propri prodotti, riceverebbe una sola, lapidare risposta: Boh!
Speriamo quindi di non essere alle solite. Cioè alle solite dichiarazioni d’intenti, di allargamento di competenze, di trionfali acquisizioni di responsabilità “sempre al servizio dello Stato”, i cui benefici per il singolo, ultimo anello della catena di questo nostro “Stato”, di cui si è “devoti servitori”, stentano a mostrarsi.
Di primo acchito, il passaggio di competenze per il commercio estero, a un ministero che il nome “estero” l’ha sul certificato di nascita, sembra coerente e logico. Poi, se si scava a fondo, si scopre che proprio questo Ministero degli Affari Esteri, gli “Affari Esteri” li sbriga già, ma li sbriga male, soprattutto nei confronti dei propri connazionali, i quali all’estero sono stati costretti ad andarci per sbarcare il lunario.
E arriviamo al nocciolo: come mai il dicastero degli esteri mette in atto quello che la stampa ha definito “uno scippo di competenze” mentre avrebbe ben altro da fare e mentre quello che ha scritto nel DNA, e cioè la tutela dei connazionali all’estero, fa acqua da tutte le parti?
Parliamo dei servizi consolari, parliamo dell’insegnamento dell’italiano ai figli degli emigrati (e usiamolo pure questo termine “emigrati” colmo di tanta storia e dignità) parliamo dell’assistenza sociale per coloro che all’estero ancor oggi rischiano l’emarginazione.
Perché fare a cazzotti tra ministeri per accaparrarsi altre competenze, mentre la rete consolare si sta dissanguando, poiché i posti dei funzionari restano cronicamente vacanti?
E la cosa si fa drammatica, se si considera che, nel frattempo, il numero degli italiani costretto ad andare all’estero per lavoro aumenta in maniera costante e a vista d’occhio. Si tratta d’italiani all’estero che hanno bisogno dei servizi basilari dello Stato, come una carta d’identità o un passaporto, per i quali nei grossi consolati italiani in Germania, per esempio, bisogna mettersi in attesa per ben sette mesi.
Qualsiasi muratore spiega che, prima di discutere come aggiungere un altro piano alla propria casa, bisogna controllare che le fondamenta siano solide. Se le fondamenta del MAECI sono la tutela degli italiani all’estero, il pericolo che queste crollino con l’aggiunta del peso di un piano per il commercio estero, non è semplice pessimismo.
Ovviamente, e siamo pronti a ritirare tutto, è anche possibile che il MAECI voglia gestire le nuove competenze solo ed esclusivamente dalla sua sede centrale, occupandosi di accordi internazionali, di colloqui tra “Stato e Stato” di visite ufficiali, con tarallucci, spumante e mascherina, e allora i consolati non c’entrano nulla, il produttore di arance siciliane si risparmia la telefonata all’estero e aspetterà che un eventuale accordo con l’India o con la Cina per le sue arance sia stipulato con i relativi fuochi d’artificio.
Una domanda è però lecita. In queste nuove competenze di commercio estero il MAECI tiene presente che all’estero esistono già sei milioni di fedeli consumatori di prodotti italiani, cioè gli italiani iscritti A.I.R.E.? E non sarebbe bene che questi “affezionati clienti” fossero trattati con un pizzico di maggiore riguardo, quando bussano alla porta dei propri consolati per richiedere i servizi? Aspettiamo risposta.