Dal 14 al 20 novembre ha avuto luogo la “Settimana della cucina italiana nel mondo”.
Così, giusto per curiosità siamo andati a guardare iniziative simili tipo ”La settimana della cucina francese” oppure della cucina cinese o la settimana della cucina indiana nel mondo, senza trovare nulla di simile.
Nessun ambasciatore giapponese si vede in giro a fare pubblicità per i suoi sushi, nessun ambasciatore francese si fa fotografare mentre spalma sulla baguette un pezzettino di camembert, anche se i cugini d’oltralpe celebrano come noi la loro cucina ma senza farne una questione diplomatico-consolare.
Eppure parliamo delle cucine più conosciute e diffuse al mondo.
Da qui scaturisce spontanea la domanda: ma è proprio necessario l’impiego di tanta energia e denaro (pubblico), di tanto entusiasmo ed enfatica passione per presentare al mondo intero una delle cose italiane, che proprio non ha bisogno di alcuna pubblicità, come la cucina italiana?
Ambasciata, consolati e Istituti Italiani di cultura, anno per anno, squillano le trombe e anno per anno organizzano incontri, seminari e discussioni attorno a mozzarella, pizza, pasta, caciocavallo e baccalà.
E anno per anno è facile vedere in ogni circoscrizione consolare i soliti gruppetti di aficionados nei soliti ristoranti frequentati dalla sciccheria italiana e tedesca con i soliti piatti in mano, con i soliti gridolini uh… ah…, magnifico, squisito, prelibato…
Tutto questo si è ripetuto anche quest’anno, ad eccezione dell’Ambasciata italiana a Berlino che ha proposto un programma fuori dagli schemi e sicuramente più intelligente del solito.
Ma, attenzione, anche a Berlino un silenzio da camposanto sui veri artefici della fortuna culinaria italiana, sui produttori dei suoi ingredienti e, ancora più importante, sui consumatori delle mille cose che poi messe insieme in pentole e padelle fanno la cucina italiana.
E chi sono questi dimenticati dagli ambasciatori della mozzarella, dai consoli del prosciutto e dai direttori IIC del caciocavallo?
Ma sono loro, i produttori, i signori Barilla, Rummo ecc. (quelli della pasta), i signori Mutti, Cirio e compagnia bella (quelli dei pomodori pelati) i signor Rana, Buitoni (quelli dei tortellini e affini) e poi Carli, quello che manda olio d’oliva in tutto il mondo e la lista potrebbe continuare per altre due pagine.
Tutti quelli cioè, i quali senza ambasciate e consolati hanno conquistato per conto proprio i mercati mondiali con i loro prodotti solo grazie al proprio coraggio, alla fantasia, alla bontà e alla scrupolosità della loro produzione alimentare.
E i gastronomi italiani in Germania? Se non fosse stato per la loro tenacia già negli anni cinquanta, nell’investire il proprio denaro in attività incerte, la cucina italiana in Germania sarebbe rimasta per i tedeschi solo un’esperienza da fare in vacanza.
Gli altri grandi dimenticati nelle serate diplomatiche così chic con partecipanti stile “’O Zappatore” con “uommene aliganti e femmene pittate” sono loro, anzi noi: i consumatori!
Cioè gli italiani all’estero, i cui nonni e bisnonni nelle prime valigie di cartone, già alla fine dell’ottocento, infilavano, tra la biancheria e qualche camicia nuova, tre chili di maccheroni.
Erano gli italiani in Germania, che negli anni sessanta andavano a fare la spesa all’Aldi e al Karstadt e continuavano a chiedere in un tedesco stentato “haben Sie mozzarella…, haben Sie fusilli, haben Sie pecorino” … e così, alla trecentesima domanda, gli addetti agli acquisti delle grandi catene cominciavano a chiedere ai fornitori: “was ist mozzarella? Und bringen Sie auch pecorino, wir haben eine große Nachfrage”, ebbene questi italiani sono stati i primi grandi protagonisti della cucina italiana all’estero.
La cucina italiana, come tutti gli altri servizi, è comunque un’offerta e il suo successo è determinato dalla domanda. Ad accrescere la domanda, a diffondere la cultura alimentare italiana all’estero non sono stati né consolati né ambasciate e tantomeno i ministri degli affari esteri: siamo stati noi, nel corso della nostra integrazione nelle società di accoglimento.
Poi è arrivata la scienza e ha raccontato al mondo intero che mangiare all’italiana fa pure bene alla salute.
E torniamo ai nostri consolati, che fanno pubblicità a ciò che di pubblicità non ha bisogno sullo stile del leggendario Jessie James, sempre pronto a saltare sui treni che viaggiavano per i fatti loro.
Se qualche giovane produttore di mozzarella chiama al consolato chiedendo supporto e sostegno per esportare in Germania la sua merce, che risposta riceve?
Se qualche giovane gastronomo italiano chiama al consolato e chiede supporto e sostegno per aprire un’attività in Germania che risposta riceve? Con molta probabilità nessuna risposta, e di sostegno concreto neanche a parlarne. Può contare però sicuramente sull’invito del console alla prossima “Settimana della cucina italiana nel mondo” con l’offerta di un biglietto per quel treno che consoli e ambasciatori non hanno mai messo in moto.