Non se ne può più! C’è una sentenza, là fuori, che del suo effluvio ne percepiamo, a primo impatto, le forme più bieche degli stereotipi, provocando a chi si addentra nel merito della vicenda più che un lieve mal di pancia – soprattutto se, giustamente, associamo al nome di Falcone e Borsellino la lotta alla mafia, le lacrime dei parenti e l’orgoglio dei palermitani. È inutile ricostruire la vicenda per intero: i maggiori quotidiani italiani e tedeschi, infatti, ne hanno parlato abbastanza, da “La Repubblica” alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” – basta consultare la rete.
Mi limito, dunque, ad un breve riepilogo entrando – immaginariamente – nel luogo stesso della vicenda: siamo a Francoforte, in una pizzeria che si chiama “Falcone e Borsellino”; prendiamo posto, ci affrettiamo a prenotare le bevande e scrutiamo con attenzione il menu delle pizze. Ci guardiamo intorno: su una parete scorgiamo un’immagine di Don Vito Corleone, celebre boss della saga cinematografica “Il Padrino”, interpretato da Marlon Brando. Al tutto si aggiungono alcuni fori di proiettili che decorano la stanza. Maria Falcone, sorella di Giovanni e fondatrice della Fondazione Giovanni Falcone, ne viene a conoscenza e denuncia i proprietari del locale. Tutto qui.
L’apologia di mafia, purtroppo, non è reato
L’apologia di mafia, purtroppo, non è reato, ma resta pur sempre disgustosa. Il punto (più basso) della vicenda è proprio questo: la spudorata commercializzazione della mafia è già insopportabile, ma la commercializzazione dell’antimafia, delle vittime delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, delle figure di spicco che hanno segnato la lotta a Cosa Nostra è una vera e propria perversione, un capovolgimento totale del buon senso. È, per dirla breve, uno dei tratti più riprovevoli del capitalismo, quello che riesce a trasformare tutto e il contrario di tutto in moneta, in profitto – insomma, il pecunia non olet nel suo senso più stretto.
L’errore non sta nell’accostare i due magistrati ai mafiosi: non si può, infatti, parlare di Falcone senza parlare di Buscetta; non si possono raccontare le indagini di Borsellino senza addentrarsi nell’organizzazione con a capo Riina e i corleonesi. Se parli del bene, devi tracciare la linea di confine proprio con il male. L’errore, però, sta nel permettere al mercato di preparare le esequie della dignità degli individui. È lecito far sì che un ristoratore nel nome dell’imprenditoria e le libertà costituzionali che la consacrano possa usare i nomi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per vendere pizze e calzoni? La risposta, che spesso ne viene fuori, sembra essere semplice: tutto è lecito se non sussiste una legge che lo vieta esplicitamente. Del resto ci sono ristoranti che portano il nome di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi oppure – ahimè – Manzoni e Dante (!). Cosa hanno in comune questi grandi nomi con la pizza Margherita? Niente. Eppure nessuno si sente offeso se viene invitato a cena al Ristorante “Leopardi”.
Qual è, dunque, la linea sottile che divide il gusto dal disgusto? Questa linea, molto sottile ma non per questo obsoleta, si chiama decenza. La decenza che, a causa della superficialità degli attori del mercato e della forza divoratrice del consumismo – come direbbe Pasolini –, è cosa ormai rara. La decenza, tuttavia, non è quantificabile e neanche trascrivibile in termini giuridici: “l’ordre public”, “il costume”, “la buona fede” e così via, sono termini giuridici che non hanno una linea di demarcazione ben precisa. Inoltre, vanno interpretati nel contesto territoriale, geografico e politico. Ecco, in fondo, la difficoltà del tribunale di Francoforte di fronte ad una vicenda, in realtà, non adatta a trovare il suo epilogo in un’aula di una corte: i giudici hanno fatto il loro dovere, hanno interpretato nella sentenza del 25 novembre 2020 il diritto personale post mortem dei due magistrati, sentenziando che Falcone e Borsellino in Germania non sono conosciuti alla potenziale clientela di una pizzeria – fatto, purtroppo, inconfutabile. E rimproverare ai tedeschi di non conoscerli, sarebbe come rimproverare ad un cittadino di Rovereto di non conoscere Fritz Bauer oppure Siegfried Buback.
E, dunque, cosa resta della vicenda?
Intanto, consultando la rete, non sembra che i titolari della pizzeria abbiano realmente cambiato il nome al loro locale – come, invece, era stato annunciato. Ma questo, comunque, è solo una nota a margine. Quel che, invece, resta, da una parte, è l’amarezza che, per l’ennesima volta, c’è chi dimentica (o semplicemente ignora), che anche e soprattutto l’antimafia è un fenomeno italiano e che, dunque, è assurdo associare l’italianità alla mafia. Dall’altra parte, però, dobbiamo fare un mea culpa: siamo, infatti, così affascinati dal male che non siamo riusciti a trasformare Falcone e Borsellino in vere e proprie icone del bene. Dobbiamo ammettere di averli trascurati, di averli messi da parte e di tirarli fuori dal cassetto solo in occasione di qualche anniversario delle stragi. Troppo poco per due eroi come loro. Due anni fa sono stato al tribunale di Palermo per visitare il luogo dove i due magistrati hanno svolto il loro lavoro, messo in atto il pool anti-mafia e rivoluzionato il metodo di indagare contro la criminalità organizzata. Non si tratta, purtroppo, di un luogo adatto per accogliere centinaia di visitatori al giorno, ma di due stanze allestite con alcune “reliquie” grazie al lavoro di Giuseppe Costanza, uno degli autisti di Falcone, che ci mette il cuore nel raccontare gli aneddoti che lo legano al magistrato. La memoria, la cultura italiana, la Storia del nostro paese non esistono a priori, ma solo e soltanto nei nostri racconti e in quel che ne facciamo quando entriamo in contatto con chi non è italiano: forse è giunta l’ora di fondare un “Verein Falcone-Borsellino” per promuovere la cultura della legalità anche qui. Che ne dite?