Alla ricerca della autenticità (seconda parte)
Spesso la vecchiaia di un intellettuale, e più per un grande delle lettere quale fu Wolfang Goethe, riserva una serie di critiche sempre più crescenti, specialmente quando si prospetta un progetto culturale alieno dalla cultura dominante. In realtà, quando nel 1820 Goethe pubblicò i due suoi soli lavori di storico – “La campagna di Francia” e “L’assedio di Magonza”- l’isolamento del Vate di Weimar divenne più evidente e per ironia della sorte il progetto di letteratura universale, che la sua ideologia cosmopolita aveva caldeggiato poco dopo la caduta di Napoleone, fu perseguita da adepti in Italia – Alessandro Manzoni – in Francia – Madame De Staël – in Inghilterra – Byron e perfino in Russia con Puškin.
L’ostracismo tedesco a Goethe era però ben più risalente. Sappiamo che negli ultimi anni di vita elaborò esplicitamente un progetto cui dedicherà anima e corpo, “poesia e verità”, ricerca e obiettivo unico e irrinunciabile, la sua stessa vita: la Weltliteratur, cioè una letteratura universale per tutti i popoli. Era un’estetica e un linguaggio inaspettato e transazionale di pace, di cultura e di rilettura delle sue stesse opere, sia già elaborate che in via di conclusione.
In questa rivoluzione esistenziale, nasce il mito che Thomas Mann, nel ‘900 poté riassumere nella formula “non si può non essere goethiani”: a due secoli dalla dichiarazione di intenti del vecchio Wolfang Goethe, il suo tentativo spirituale, la c.d. Weltliteratur, la cui interpretazione formale – “letteratura universale” – rivela proprio la sostanza di quel messaggio, o meglio di quella formula. Le qualità affabulatorie di Goethe non erano affatto scomparse, malgrado le contestazioni all’ultimo suo progetto culturale seguita dalla creazione di un centro culturale, analogo alla cerchia di letterati di Weimar, rivolto a una letteratura nuova in un mondo e in un’Europa cosmopolita.
Negli ultimi suoi anni di vita – 1826/1832 – Goethe compie questa rivoluzione nel suo pensiero, che non era però del tutto inattesa e che si pose a completare la sua intensa vita culturale e sociale. Fin dalle sue intense discussioni giovanili con Herder nelle taverne di Strasburgo – mirabilmente riprodotte nel primo Faust nella cantina di Auerbach a Lipsia (v. Faust prima, parte, cap. 5, Auerbachs Keller). I due concordarono su un tema, la traduzione, dove il presupposto del linguaggio”è una forma di accoglienza dell’altro in qualunque e da qualunque parte provenga”. La traduzione non era l’unica espressione del linguaggio, ma un’attività etica preliminare, che si collega a una visione superficiale del quotidiano. Senza traduzione le varie nazioni di lingua diversa, non solo sarebbero nell’impossibilita di dialogo con loro e fra loro; ma anche diverrà impossibile costruire un cultura dell’incontro e della pace perpetua. Secondo i due grandi della cultura illuministica europea – l’altro fu Kant – “le guerre divoreranno le civiltà europee perché l’ignoranza della lingua altrui é il passo più vicino alla fine del mondo civile” (da una lettera di Goethe a Herder del 1790). Di più: Goethe approfondì i limiti del concetto di linguaggio, superando i confini formali della semplice traduzioni letterale.
Merita attenzione quanto scrisse negli ultimi anni della sua vita al Cancelliere Müller, capo del governo di Weimar nel 1828: “Se si deve interpretare, è opportuno prescindere dal significato linguistico letterale se inteso in senso unilaterale e definitivo. Invece, si dovrebbe rigidamente rispettare quel che non pare traducibile. “Piuttosto a Nostro parere occorre ricercare il significato e il valore sociale del termine nella società che lo esprime”. E questa breve regola, ci pare, la sintesi del suo programma di letteratura totale. Come e quando nacque questo profetico programma di azione del Vate di Weimar? E sopratutto, perché oggi ne riparliamo, tanto da qualificare Wolfang Goethe il padre della modernità? Il momento in cui a Goethe apparve ineluttabile la discesa in campo nel proporre il suo piano della Weltliteratur consta di due date: quella formale, che il maggior studioso del progetto goethiano, Fritz Strich, stabilì nel 1949, quando pubblicò una rarissima lettera del Vate su una rivista americana – “El Iris” – che il suo epigono cubano Josè Maria Heredia ebbe a segnalare nei modi e nelle limitazioni che riproporrà al Cancelliere Müller.
Ma il momento sostanziale venne individuato da un altro grande critico tedesco Friedrich Gandolf, che nel 1920 aprì la “querelle” sull’opera più poeticamente godibile e peraltro all’epoca poco curata, il cd. “divano orientale/occidentale”. Goethe cominciò ad elaborarlo già nel 1814 e a farlo pubblicare dall’amico Cotta nel 1815, un biennio essenziale per la terza ed ultima fase della sua lunga vita, data dalle quali la critica consolidata fa decorrere la sua intrepida e bruciante vecchiaia (aveva già 65 anni!). Era chiaro già l’obiettivo finale, il suo ultimo fuoco, quando a Lui sembrò chiaro il messaggio della letteratura universale, dove manifestò, a chi già non l’avesse inteso, l’unità di vita e di pensiero nella ricerca di un’anima sotterranea del mondo, una base ideale per il futuro d’Europa e del Mondo. Partendo dalle linee consolidate dello spirito tedesco e quando ancora era in parte solidale con gli amici più giovani e romantici, dagli Schlegel a Fichte, fino a Beethoven. Goethe però deviò verso un ideale cosmopolita, la fondazione di una letteratura mondiale basata sull’Uomo, dove il popolo tedesco – martoriato dalle guerre napoleoniche, diviso in Stati e comunità politiche ben più numerose della consorella italiana, ambedue frammentate dal Congresso di Vienna – non doveva chiudersi in un rigido recinto culturale – come volevano ormai i circoli romantici di Jena, Berlino e Monaco – ma aprirsi al mondo europeo, sul modello illuministico da Goethe mai abbandonato, dove gli esempi di Voltaire, Rousseau, Diderot, Montesquieu, Jefferson e Franklin, ma anche Heine e Kant, potevano ancora rappresentare valori realizzabili. Del resto, nella piccola Weimar, Goethe aveva promosso un pari circolo di intellettuali di lingua tedesca che poteva guidare la cultura europea unitariamente, quali Schiller, Wieland, Herder e Lui stesso, quasi un ritorno alla Firenze di Lorenzo dei Medici o alla Atene di Pericle, fino alla Roma di Augusto.
La cultura illuminista tedesca – arricchita dal Genio politico di un Lessing e da un pari poeta classico di un Klopstock – poteva guardare le ceneri dell’Europa flagellata dalle guerre napoleoniche! Solo che i romantici berlinesi erano troppo nazionalisti e spesso solidali con gli eccessi violenti della Rivoluzione Francese. Peraltro Goethe guardò alla fine ingloriosa di Napoleone, a suo parere un eccelso riorganizzatore del suo grande impero europeo, ma spesso in odore di tirannia. Ambedue gli effetti rovesciarono le sue speranze politiche di rinnovamento sociale e culturale. Tutti i suoi amici del gruppo di Weimar erano ormai morti e poco ricordati; i parrucconi conservatori e reazionari avevano restaurato tutto quello che il suo originale titanismo aveva minato alle fondamenta, fin dal “Werther” e poi col “Tasso”. Senza contare come il neoclassicismo di Winckelmann, da lui più volte lodato, si era tramutato in un coro di moderati a favore dell’imperialismo napoleonico e dell’autoritarismo della Santa Alleanza.
Né i suoi ormai freddi amici romantici gli sembravano migliori: le loro critiche agli antichi imperi, il rilancio del Medio Evo e il loro favore agli Stati nazionali; la svalutazione delle belle forme classiche e la coscienza estetica della bruttezza, dell’orrido e del grottesco. La deformazione del sublime e la comicità del macabro – che l’epigono von Platen deriderà nella persona dell’“Edipo romantico” proprio negli anni successivi – indussero il Vate a chiudersi, e a fare parte a se stesso, come qualche secolo prima fece il nostro Dante. Non fu però un isolamento assoluto, un ritorno alle passate conclusioni del “Tasso”, quando nel 1790, al ritorno del viaggio in Italia, ebbe la tentazione delle rassegnazione alla pacifica solitudine e al covare della rabbia interiore, in cui caddero lo stesso von Platen, roso dall’ostracismo culturale per la sua omosessualità e il giovane Hölderlin, poeta incomprensibile per i suoi riferimenti omerici e pindarici, che lo portò alla follia schizofrenica e al suicidio inevitabile.
Il pilastro classico cui invece si poggiò Goethe non fu né nostalgico, né statico. Per combattere il nazionalismo romantico e l’isterica preclusione all’estetica classica, che porteranno a metà ‘800 al conformismo tedesco, propenso alla deformità orrida di E.T.A. Hoffmann e al conservatorismo prussiano, militarista e prevaricatore, condito da un forte senso di supremazia, magari prodromico della follia nazista del ‘900.
Una sola era la strada culturale: riattivare lo spirito di Weimar, una nuova Roma Augustea, una letteratura tedesca rivolta ad Est per risanare i limiti dell’Ovest, un linguaggio aperto allo Straniero e forme nuove di poesia, riprese dalle culture orientali. Vale a dire proprio la Weltliteratur, che nel 1827 Goethe ripropose a più forza incarnando negli anni successivi nella propria persona ormai vetusta (morirà nel 1832): il progetto ideale di nuove forme letterarie riempite di valori stranieri per la Germania, dove lo scambio culturale non era una invasione politica di un paese guida su un altro; ma la libera convivenza e l’autonomo dialogo di un popolo con l’altro, come fu con con Roma e con la Grecia classica. E dunque, uno sguardo alla poesia del poeta Hafiz, alle leggere rime d’amore come i “Ghasel” che spinsero proprio von Platen a perseguire per primo lo stile del Maestro, che nel suo divano si mise a parlare idealmente col poeta di un millennio prima, a mediare e a ritrovare i valori umani connessi fra le due diverse civiltà. Guardare ad Est per reagire allo stallo umanistico dell’Ovest, dove ormai primeggiava lo spirito inautentico e conflittuale di stampo economicista.
Già Marx ed Engels si erano accorti dei nefandi processi accumulativi e sulle conseguenze pericolose per l’umanità del capitalismo che lo stesso vecchio Goethe aveva già stigmatizzato nella seconda parte del Faust (1828 – 1829). Cosicché, in prima persona non solo ricevette una pletora di intellettuali di tutto il modo nella sua dimora a Weimar, ormai illustrissimo pensionato dello Stato; ma intrattenne diari e carteggi con intellettuali non solo europei – per citare, Byron, Carlyle, Manzoni, Puškin, il citato Heredia – senza disdegnare ulteriori suoi saggi – per esempio “dell’architettura tedesca” e romanzi – “Le affinità elettive” del 1809, opera che da sola lo rende un grande della letteratura, se non fosse diventato in seguito un Genio della cultura mondiale. Se del quando e del perché del suo progetto si è detto; restava ora il come del suo piano di azione. La ricerca di un modello esecutivo non poteva spettare a Goethe, giunto finalmente in Olimpo. Toccherà ai suoi posteri giudicare se il suo ideale di linguaggio mondiale poteva reggere le prospettive del ‘900, giunto a un livello di decadenza così elevato da meritare ben due guerre mondiali del tutto spregiative del suo messaggio di ritorno ad un autenticità perduta.