Nessun premio al cinema italiano nell’edizione 2018 del Festival del cinema di Berlino. La giuria presieduta dal regista tedesco Tom Tywkler si è orientata sul principio di valorizzare pellicole molto sperimentali e di nicchia. Così l’Italia è rimasta fuori dal palmares conclusivo, ma in fondo questo importa poco. La buona notizia è che il nostro cinema è sempre vitale e interessante. Le due pellicole presentate quest’anno, Figlia mia di Laura Bispuri nella sezione “Concorso” e La terra dell’abbastanza dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo nella sezione “Panorama” hanno raccolto applausi e suscitato discussioni. Entrambi tornano da Berlino senza riconoscimenti ufficiali, ma sicuramente avranno il successo che meritano nelle sale cinematografiche italiane e anche fuori d’Italia.

FIGLIA MIA

Un film di Laura Bispuri su maternità e identità femminile.

A tre anni di distanza da Vergine giurata, in concorso alla Berlinale 2015, la regista romana Laura Bispuri è tornata al festival della capitale tedesca col suo secondo lungometraggio, e anche in questa occasione ha affrontato il tema dell’identità femminile e dei processi che portano a definire ed affermare tale identità. Figlia mia è ambientato in un angolo della Sardegna, nell’oristanese, un luogo particolarmente selvaggio, poco toccato dal turismo, caratterizzato dal netto contrasto tra la calda luce mediterranea e l’asprezza del paesaggio. Lì si consuma il dramma di due donne, Angelica (Alba Rohrwacher) e Tina (Valeria Golino) in competizione tra loro per una bambina di 10 anni di nome Vittoria (Sara Casu). Angelica è la madre naturale, ma al momento del parto ha “ceduto” la piccola all’amica Tina la quale ha allevato Vittoria come figlia propria elargendo in cambio all’altra donna denaro e aiuti vari nei momenti di necessità.

Le due protagoniste non potrebbero essere più differenti anche nell’aspetto fisico: Angelica è bionda e ha la pelle diafana, mentre Tina è mora con capelli neri e lisci. Ma la contrapposizione riguarda soprattutto il carattere e la posizione sociale. La madre affidataria, Tina, è una donna posata e razionale che pur provenendo da un milieu basso (lavora come operaia) nutre aspirazioni piccolo-borghesi, educa la figlia alle buone maniere e alla cura maniacale dell’igiene personale. Con la bambina ha instaurato un rapporto simbiotico: evidentemente la maternità rappresenta per lei una dimensione esistenziale assoluta, il valore più importante al punto di annullare se stessa e la sua sessualità (preferisce dormire accanto alla bambina anziché col marito). Il suo essere donna si rispecchia completamente nella figlia vissuta come prolungamento della propria persona. Tutto l’opposto è Angelica, fragile e istintiva, dalla vita scombinata, perseguitata dai debiti, incline all’alcol e ai facili rapporti sessuali con gli avventori del bar dove trascorre le serate.

Il punto d’avvio è l’incontro tra la piccola Vittoria e Tina, coinvolte ai margini di un rodeo in un ballo sfrenato scandito dalla musica di “Quest’amore non si tocca”, popolare canzonetta di Gianni Bella. La bambina è immediatamente attratta dalla figura di Tina, passa sempre più spesso il tempo con lei, percepisce un’affinità speciale che va oltre la plateale somiglianza fisica.

La cinepresa della Bispuri racconta con mano leggera il processo di crescita della piccola Vittoria, la sua estate fatta di domande, paure, avventure e scoperte. Il patto segreto che legava le due donne dalla nascita di Vittoria si rompe. La piccola è combattuta nel dover scegliere tra la libertà senza rete che le garantisce la madre naturale, e la protezione rassicurante offerta dalla madre adottiva. Preferisce la prima, ma non riesce a staccarsi da colei che l’ha cresciuta ed educata.

«Figlia mia è un viaggio in cui tre figure femminili si alternano, si cercano, si avvicinano e si allontanano, si amano e si odiano e alla fine si accettano nelle loro imperfezioni e per questo crescono», ha commentato la regista sintetizzando il senso dell’opera. Si tratta di un film con molti pregi tra i quali la scelta autoriale di raccontare il dramma delle due madri senza giudicare, bensì lasciando decidere allo spettatore su torti e ragioni. D’altro canto la costruzione dei caratteri appare un po’ troppo statica, senza evoluzione; e sembra esagerato l’universo tutto al femminile della Bispuri, un universo in cui gli uomini non ci sono affatto o quando ci sono, sono deboli e marginali.

Ben congeniato appare invece il simbolismo uterino del buco nel terreno, dentro cui Vittoria dovrà calarsi per dimostrare il proprio coraggio. L’entrata e l’uscita da quel buco rappresentano la rinascita e la metamorfosi della bambina. Dopo quella prova, alla fine è la piccola Vittoria a guidare le due madri che si abbracciano riappacificate. Non ha scelto, ma se le prende entrambe accettandole per come sono.

LA TERRA DELL’ABBASTANZA

Criminali per caso nella periferia romana

Molti applausi del pubblico e in generale una buona accoglienza ha riscosso La terra dell’abbastanza al festival del cinema di Berlino, dove è stato presentato in anteprima mondiale nell’ambito della sezione “Panorama”. Si tratta del lungometraggio d’esordio di due giovani romani, i fratelli gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, i quali raccontano la periferia romana dei giorni nostri, caratterizzata da degrado senza speranza, secondo una prospettiva narrativa che si avvicina per molti aspetti a quella dei film di Claudio Caligari da Amore tossico a Non essere cattivo (ma non pare sbagliato includere tra i modelli di riferimento pure Gomorra di Matteo Garrone).

Girato a Ponte di Nona, il film inscena l’iniziazione casuale alla delinquenza di due ragazzi del posto, Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano), due “coatti” con alle spalle poco studio (una scuola alberghiera poco e male frequentata) e vite famigliari difficili. Uno soffre della perdita della madre, l’altro di quella del padre. La loro amicizia, che risale ai tempi della scuola elementare, sembra essere saldissima, ma un incidente di macchina mette in moto un meccanismo infernale dal quale non sapranno più uscire. Una sera, dopo un kebab consumato insieme nel desolato piazzale di parcheggio, i due investono un uomo per sbaglio. Fuggono e non sanno come superare il senso di colpa, quando improvvisamente la prospettiva si ribalta: si scopre che l’uomo che hanno ucciso è un pentito di un clan della zona e togliendolo di mezzo i due si sono guadagnati la possibilità di essere accolti nella banda criminale entrando così nel traffico della droga e della prostituzione. È la “svolta” delle loro vite, e le iniziali perplessità morali soccombono in un attimo di fronte alla concreta possibilità di avere un ruolo attivo e di guadagnare finalmente un po’ di soldi facili. Non importa se in cambio di questo apparente benessere economico dovranno sparare a un africano e compiere altre prove del genere.

L’aspetto più interessante del film dei fratelli D’Innocenzo è il modo in cui rappresentano il progressivo sgretolarsi delle relazioni famigliari e sociali di Mirko e Manolo. Anche se loro credono di “essere bravi a uccidere”, si capisce subito che non c’entrano nulla con il mondo della criminalità organizzata. Nonostante tutto sono dei bravi ragazzi, del tutto inadeguati al ruolo di killer. E infatti nel clan vengono a mala pena tollerati e trattati con sufficienza. Soprattutto nel caso di Mirko la nuova identità criminale, sia pure tenuta segreta, logora il rapporto con la madre (Milena Mancini) e con la fidanzata. Il padre di Manolo dal suo canto, interpretato da Max Tortora, nella sua sostanziale debolezza incarna la più immorale delle assuefazioni al male.

Oltre che un film sul degrado delle periferie urbane e sui percorsi che portano i giovani ad affiliarsi alla criminalità organizzata, La terra dell’abbastanza è anche un film sull’amicizia, in particolare «sull’amicizia in un luogo dove la sconfitta è già scritta», come hanno spiegato i due registi in un incontro col pubblico e con la stampa. Nel cast c’è pure un cameo dell’attore Luca Zingaretti, perfettamente capace di abbandonare i panni del commissario Montalbano per entrare in quelli di Angelo, boss della malavita locale. Ma la qualità del film è data soprattutto dalla genuinità e spontaneità con cui recitano i protagonisti, esprimendosi in un romanesco nervoso e volgare e muovendosi in una maniera che parrebbe istintiva.

«Con questo film volevamo raccontare di come sia facile assuefarsi al male» hanno raccontato i due cresciuti a Tor Bella Monaca in un incontro col pubblico che è seguito alla proiezione «In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza i nostri due protagonisti si spingono oltre il limite della sopportazione, fingendo di non sentire nulla. Andranno fino in fondo, perché quando il sangue non fa più impressione e la paura non è più meccanismo di difesa, la violenza diventa l’unico linguaggio comprensibile». E a proposito della loro formazione culturale hanno rivelato: «Siamo degli autodidatti, non abbiamo seguito un percorso di formazione ufficiale e finora abbiamo fatto lavori umili. Veniamo dalla periferia, ma siamo vissuti in un ambiente dove non ci è mancato niente per essere felici, e dove abbiamo scoperto il cinema». Infine, a proposito della loro simbiosi artistica, hanno precisato: «Tra noi c’è una fratellanza di immaginazione e poesia, abbiamo visto per anni tre quattro film al giorno, abbiamo studiato l’opera completa di tanti registi. Per il debutto abbiamo voluto una storia semplice, che ci appartiene anche se non è autobiografica».

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