L’opera di Hindemith del 1938 è, con una durata di ben 3 ore, non certo un’opera facile da digerire. Tratta della vita del pittore Mattias Grünewald, attivo ai tempi della riforma protestante e delle guerre contadine, noto per la vionarietà drammatica del suoi quadri rappresentanti temi religiosi, in 7 quadri. Nella messa in Scena di Jochen Biganzoli presso la Semperoper di Dresden, si nota, innanzitutto, l’atemporalità della rappresentazione, che è però pervasa, per tutta la durata di un alone di storicità. Sia per i personaggi storici che sono in scena che per le citazioni che precedono (quasi) ogni quadro, sia che si tratti di Robert Longo, Roy Lichtenstein, Kirchner o Monet.
Andreas Wilkens mantiene la scena molto basica e ampia: pochi elementi di arredamento e contrasti cromatici, che alternano colori vivi come il rosso o il blu ai non colori bianco e nero. Il cardinal Albrecht von Brandenburg appare in scena completamente svestito di sacralità (costumi di Heike Neugenbauer), accompagnato da una vamp e in corso di fare sport. Questo gioco tra follia e realtà, tra convenzioni sociali e sentimenti veri, tra aspetti positivi e negativi della vita moderna, rappresenta in maniera esemplare la diatriba interiore del pittore che ha creato un capolavoro come l’altare di Isenheim: vivere per l’arte o svendere la propria arte (appaiono in scena comparse con borse che inneggiano alla svendita), essere al centro dell’attenzione (paparazzi, elemento di cinema), non piegarsi ai desideri politici (elementi nazionalsocialisti) e lasciarsi prendere dei sentimenti.
Quel che è certo, è che si tratta, ad ogni modo, di un tripudio di sentimenti, che mantengono l’attenzione dello spettatore attiva per tutta la durata, conferendo alla fine, un’energia per affrontare la triste quotidianità.
Delle luci se ne occupa Fabio Antoci, di origini siciliane, a Dresda da ben 12 anni.
«Mathis der Maler» per te è…
… stata un’occasione per arricchire le mie conoscenze. Appena è stato noto che si sarebbe fatta questa opera, ho ricevuto in regalo un libro sull’altare di Isenheim ed ho incominciato a documentarmi. Musicalmente non la conoscevo e, a volte, preferisco non conoscere le opere fino alla fine, per mantenere l’effetto sorpresa alla prima prova dell’orchestra. Ascolto la musica e cerco di trasferire nell’ascolto e, in base alle anche idee del regista, le idee illuminotecniche. In Mathis l’illuminazione è stata adattata alla scena, frutto di una lunga preparazione tecnica per la quantità delle luci presenti in scena. Ogni quadro avrà un’atmosfera a sé.
Come arriva un siciliano a Dresda?
È stato alquanto «Improvvisato». All’epoca stavo insieme a una ragazza di Jena che studiava a Dresda, quindi l’ho raggiunta per stare un paio di mesi… che si sono trasformati in 12 anni. In Italia lavoravo già come responsabile luci per una compagnia teatrale e studiavo al conservatorio. Avevo iniziato a lavorare come tecnico teatrale per mantenermi agli studi, ma presto mi sono reso conto che mi piaceva. Così, arrivato a Dresda, mi sono un po’ informato e ho fatto il corso per «Meister für Veranstaltungstechnick». L’approccio con la lingua tedesca, invece, è stato bello e neanche tanto difficile: ho seguito un corso di due mesi al Goethe Institut. Ho finito il Meister nel 2004. Avevo fatto il mio tirocinio obbligatorio alla Semperoper e pensavo, dopo il corso, di ritornare in Italia. Invece il desino aveva altri piani per me. Una domenica mattina, ancor prima di finire il corso, ricevo una telefonata in cui mi viene chiesto se volessi iniziare a lavorare alla Semperoper.
Cosa significa lavorare alla Semperoper?
Per me la Semperoper è una grande istituzione e prima di lavorarvi, ne ero già un frequentatore assiduo. Come tutte le grandi istituzioni è molto macchinosa. Io ho iniziato come capo illuminotecnico: mi occupavo dell’allestimento quotidiano delle opere di repertorio. Dopo 4 anni ho avuto la possibilità di diventare caporeparto, che è, in un certo senso, anche il light designer della casa, e da lì ho iniziato questo percorso.
Hai detto che eri un assiduo frequentatore dell’opera. Lo sei ancora? Quando vai a vedere uno spettacolo, riesci a staccare?
Sì, ci vado ancora spesso. E quando guardo uno spettacolo, mi devo impegnare a non guardarlo da un punto di vista «solo professionale». Se ce la faccio a staccarmi, vuol dire che lo spettacolo mi ha preso, se non ce la faccio, vuol dire che lo spettacolo aveva qualche imperfezione.
Come funziona la collaborazione tra chi si occupa delle luci e il regista?
Funziona sempre in maniera diversa, a seconda dei registi: ci sono quelli che ti danno carta bianca e, invece, quelli che hanno in mente già un piano ben preciso di come devono funzionare le cose. Tutte le esperienze sono belle.
Ci sono determinati tipi di spettacoli che presentano più sfide dal punto di vista dell’illuminazione?
Quando mi occupo di qualcosa in teatro, mi sento a casa, quindi nessuna sfida. Quando si tratta di balletti, invece, in quanto i coreografi moderni sono molto più vicini alla vita reale, gli spettacoli presentano delle sfide diverse, ma belle. Per i progetti esterni, invece, si tratta di una novità in toto. Se c’è la possibilità, vado a visitare prima, il luogo dello spettacolo per farmene un’idea; se la possibilità non c’è, mi devo orientare con piantine e disegni tecnici.
Cosa volevi fare «da grande»?
Il professore di matematica, poi il chimico e infine studiare musica. Ho iniziato a studiare musica, mi sono avvicinato agli impianti audio ed è nata l’idea di fare il tecnico del suono. Improvvisando poi, mi sono avvicinato al mondo illuminotecnico.