Alle origini del populismo anarchico
Democrazia diretta e populismo sembrano essere all’ordine del giorno delle vicende politiche. Pochi però sanno di due profeti della controversa materia, vissuti in secoli diversi, ma uniti nello spirito libertario che indomito e fra le righe regge le sorti della democrazia in Europa. Nell’800 primeggiò per breve tempo la figura del tedesco Moritz Rittinghausen, mentre nel ‘900 il nostro Camillo Berneri rinverdì quelle idee a prezzo della vita.
Moritz Rittinghausen
Moritz era figlio di una famiglia influente della Renania-Vestafalia, staterello commercialmente avanzato invaso da Napoleone e poi divenuto molto ricco per la vendita di vini pregiati, frutto di succosi vigneti sulle sponde del Reno. Era di origine francese con ascendenze nobiliari, i Blois di Borgogna. Il nonno era stato borgomastro di un borgo rigoglioso agricolo e il padre fu economo del comune di Hückeswagen che accolse le truppe napoleoniche con spirito rivoluzionario.
Di temperamento ribelle, dopo gli studi ginnasiali classici, fuggì a Colonia dove studiò diritto ed economia nella casa di un liberale illuminista, Wilhelm Schroeder, che lo erudirà nella filosofia democratica di Rousseasu. Tali idee lo porteranno all’espulsione dall’Università Regia e alla fuga in Belgio all’epoca invasa dai socialisti utopisti e dallo stesso Marx. Negli anni ‘40 del’800, come giornalista d’opposizione, approfondì i problemi sociali del territorio renano, vivendo a Colonia e beneficiando dell’amnistia del Re di Prussia che aveva assorbito la Renania-Vestafalia. Conobbe poi Engels, che al Congresso dei lavoratori di Bruxelles nel 1847 lo lodò per la chiarezza delle sue tesi già rivolte a rivendicare le tesi di Rousseau sul Populismo – la c.d. volontà generale dei popoli – nonché le connesse concezioni sulla moderna democrazia diretta. Furono però il 1848 e il 1849 gli anni del suo progressivo distacco dalle teorie marxiane che prevalsero negli anni successivi sulle tendenze pseudo anarchiche della Prima Internazionale Socialista. In particolare, Moritz, scrisse nel 1851 un libretto che oggi sembra essere la fonte più acuta della scena politica intellettuale più rivoluzionaria.
La legislazione diretta del popolo, o la vera democrazia (oggi ristampato dalle edizioni Giappichelli). Al di là delle ambigue formule mistiche dell’Illuminismo, il renano non intendeva migliorare soltanto il collaudato sistema parlamentare rappresentativo di origine anglosassone, quanto di superarlo definitivamente. Infatti, la nuova fonte del suo sistema parlamentare consisteva nell’istituto dell’iniziativa popolare e del Referendum propositivo e abrogativo. Inoltre conferiva la elezione diretta in modo proporzionale al popolo, titolare del sì e del no senza alcuna mediazione. Queste furono le principali novità che propose a Marx e Engels, molto titubanti e alla fine negativi al massimo in sede congressuale, perché erano sempre più legati ad una iniziale tolleranza verso il sistema rappresentativo di origine borghese, dove la democrazia diretta era vista come un inciampo rispetto alla classe dirigente, vera titolare della politica economica, regime in seguito teorizzato da Lenin e Gramsci. Invece Rittinghausen prefigurava una teoria che i populisti italiani propugnarono qualche anno fa, cioè la diretta partecipazione popolare, istituto che avrebbe migliorato la situazione parlamentare dell’epoca, dove l’incompetenza professionale era di casa, senza contare le contraddizioni di tale sistema alla luce del Congresso di Francoforte durante la rivoluzione del 1848 e poi anche in occasione della Comune di Parigi del 1871. Inoltre la democrazia partecipata era una esperienza riuscita davanti agli occhi di Moritz e degli anarchici fuoriusciti dalla prima internazionale dominata dai marxisti.
Infatti, il sistema svizzero in Europa e il regime nordamericano furono citati a testimoniare a favore del governo prettamente popolare, senza peraltro incidere più di tanto la scuola marxista. Del resto il nostro pensatore, proprio in polemica con Marx, avvertiva che il Socialismo poteva essere conseguito definitivamente non con la dittatura del proletariato, quanto per effetto della democrazia diretta che avrebbe veramente cancellato la forma borghese di Stato.
A molti sembrò attuale questa interpretazione proprio nel 1917, quando la rivoluzione russa consacrò l’assemblearismo dei soviet e dei consigli operai della Germania del 1918. Al contrario, la Repubblica di Weimar e le relative critiche gramsciane nel 1919, erano rivolte a fondare una élite dirigente votata alla politica di professione, come da parte liberale ipotizzò Weber. Tesi che sembrò più opportuna di fronte all’alternativa di un’attività politica spesso dispersa in discussioni, magari democratiche, ma disattente alla realtà quotidiana, dove non sempre la politica come mediazione era alla portata di tutti, visto che l’etica non sembrava idonea a sostituire la politica nella vita comune.
Camillo Berneri
Supplemento di etica che però il nostro Camillo Berneri riuscì a colmare nel dibattito intellettuale che nacque dopo il fallimento della democrazia diretta nell’U.R.S.S. di Stalin. Berneri, dopo alcuni anni di militanza socialista in Emilia all’epoca della settimana rossa del 1914, maturò forti critiche al centralismo del partito socialista e si avvicinò all’anarchismo. Disertò dall’esercito e scioperò nel 1919, scrivendo su tutti gli opuscoli di estrema sinistra. Pacifista e filosofo veteromarxista, combatté il Fascismo nascente e diffuse un giornaletto comunista e democratico, “Non mollare”.
Dopo le leggi fasciste del 1924-1925, espatriò in Francia con la famiglia e si adoperò alla conversione di tanti giovani socialisti molto perplessi sulla condotta autocratica della classe dirigente sovietica dopo la morte di Lenin, la conquista del potere a Mosca di Stalin e la epurazione di Trotskij, il fondatore dello Stato Assemblearista Sovietico, cioè dei consigli di fabbrica e contadini. Vale a dire la ripresa della figura della rappresentanza diretta nella formazione delle leggi. Proprio all’inizio della guerra civile spagnola, Berneri comprese come la Catalogna repubblicana, fondata sull’assemblearismo parlamentare, innovava quel modello abbandonato dal marxismo dopo la disfatta alla Comune di Parigi nel 1871. Anzi l’amicizia con una altra frangia del socialismo democratico, fondata dai fratelli Rosselli, lo portò a distinguere la democrazia diretta dal socialismo dispotico e a dare alle strutture consociative catalane un giudizio di modernità.
Qui il dialogo democratico però collideva con le posizioni elitarie del comunismo. Diceva pure che la guerra rivoluzionaria contro Franco doveva passare per l’indipendenza del Marocco e invocava la collaborazione con i cattolici progressisti e con tutti gli altri antifascisti. Respinse l’accusa lanciata dai santoni socialisti tedeschi e dai comunisti staliniani, secondo cui la democrazia diretta era un fatale errore nella marcia verso lo Stato senza classi, perché disperdeva forze alternative al buon cammino della comunità. Critica che già a quel tempo appariva priva di fondamento proprio alla luce dello sviluppo che la Catalogna aveva raggiunto negli anni anteriori alla guerra civile. Senza contare l’analoga esperienza nei Kibutz fondati in Palestina nel 1909, governati dai principi di socialismo radicale e a pieno regime di democrazia popolare e diretta. Piuttosto, nelle giornate di maggio del 1937, la frazione comunista staliniana procedette alla resa dei conti con le milizie anarchiche e democratiche e con i suoi esponenti, primo fra tutti Camillo Berneri.
Al pari dei fratelli Rosselli, massacrati in Francia da agenti segreti fascisti, così Camillo – e altre migliaia di libertari non stalinisti – furono prelevati da agenti sovietici dalla loro abitazione e furono barbaramente fucilati come traditori solo perché esortavano le masse popolari a non cedere alle evidenti istanze dittatoriali e atee del partito comunista sovietico. Sì, perché Camillo nel 1932 si era convertito al Cristianesimo, scrivendo il piccolo libretto il Cristianesimo e il lavoro. Come ci racconterà la sua compagna Giovanna Caleffi, il supplemento spirituale, gli sembrò idoneo a superare le apparenti contraddizioni opposte dai critici del pensiero populista: esso deriverebbe innanzitutto dal fattore lavoro, che da buon cristiano Camillo faceva discendere biblicamente dalla caduta dell’uomo e dalla sua espiazione. Invero la Bibbia lo aveva inteso come essenziale alla vita quotidiana, come medicina della depressione e come sanatoria della mancanza di fede.
Da San Benedetto a Lutero, da Calvino a Don Bosco, il cammino delle civiltà aveva avuto bisogno del lavoro in tutte le sue sfaccettature. Quindi una spiritualità del lavoratore che farebbe parte della comunità e che costituirebbe l’unica via per superare i contrasti fra gli uomini fino a favorire la pace fra gli Stati. E poi negli scritti pubblicati successivamente alla morte, Camillo analizzò un lavoro senza pena, un lavoro libero, un lavoro in cui la persona maturava verso la perfezione, per dirla con San Paolo, lavoro che si fa tutto in tutti.
Fu la forma di Governo della Chiesa del 1° millennio e che oggi si spera di riesumare alla luce della storia, spesso rivestita di una mediazione politica ipocritamente portatrice di ideologie totalitarie.