Ogni parola nel libro di Emiliano Cribari è nata camminando, fra le montagne selvagge dell’Appennino. Errante è un diario di viaggio, felicemente macchiato dal fango di migliaia di chilometri a piedi, di incontri e suggestioni. Un omaggio al nascosto, al taciuto, all’incontenibile urgenza di tornare animali
Come interagiscono famiglia e natura?
Forse sarebbe meglio dire come interagivano. Sono infatti poche le persone che oggi possono dire di non sentire la parola natura come parola sganciata da sé, dal proprio ritmo quotidiano. Fino al tempo della “Rivoluzione industriale”, l’umanità non poteva fare a meno del contesto naturale in cui era sempre vissuta. Non voleva svincolarsene perché lì, nella natura, trovava riparo, conforto, ispirazione e tutto ciò che le serviva per vivere. L’improvviso distacco dal mondo naturale ha trasformato la parola natura in una parola quasi chimerica, vacanziera, colore infiammato in un quadro senza tinte. La natura dell’essere umano è irrefrenabile e distruttiva: per produrre serve sempre più spazio, e per farlo ci si allarga, si abbatte, si sfrutta, pur nella consapevolezza che tutto questo è un suicidio. “Energia verde”, “sostenibilità”, alla fine sono soltanto parole: l’essere umano ha straripato e non può più tornare indietro. Perché tornare indietro significherebbe dover togliere, sacrificare tutto quell’effimero che ormai è ritenuto essenziale.
È la natura che prende il sopravvento o la vita che si adatta alla natura?
La natura siamo noi, anche noi, che abbiamo preso il sopravvento su tutto: piante e animali. Noi decidiamo, noi scegliamo, noi organizziamo. Noi sterminiamo. Siamo una virgola nel creato eppure seminiamo soltanto distruzione. Noi siamo l’unica specie che non si basta, a cui non basta lo spazio che ha. Basterebbe alzare lo sguardo e chiedersi come facciano gli alberi, per esempio, a definire i propri confini: si chiama “timidezza delle chiome” e consiste appunto nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano.
Il viaggio come si colloca tra religioso e profano?
Io non so dire di viaggi profani. Io conosco solo viaggi, arcaici, scaturiti dal bisogno. Di fuggire, o di cercare se stessi, o una forma qualsiasi di slancio spirituale. Oppure una terra più fertile, o più pacifica. Per me il viaggio è sempre religioso, anche se ha sguardi e pensieri profani: è religioso perché si fa a piedi, più o meno lentamente, più o meno faticosamente; perché si fa senza agi, senza lasciare impronte che non siano testimonianze, che non siano insegnamenti. Viaggio – come mare, come amore – è una parola da schermare, da proteggere, da custodire, da utilizzare con esatta e scrupolosa parsimonia: tutto il resto è andare, un mero fatto di muscoli e di ossa, di polmoni. Il viaggio è una gara puramente spirituale.
Che camminata letteraria ci proponi?
Un viaggio sulle orme del poeta Dino Campana. Si parte da Marradi (suo paese natale) e ci si incammina verso Castagno, mèta che Campana raggiunse almeno tre volte (nel 1910, nel 1912 e nel 1917). Siamo sull’Appennino Tosco-Romagnolo, terra che un tempo fu prodiga di pascoli e preghiere, terra battuta da un continuo viavai di persone: qui oggi regna un silenzio di selva, rotto soltanto dal vento che scuote le foglie, dai fulmini, dall’acqua, dal passaggio furtivo di fauna selvatica. Anche Campana fu vento e foresta, e animale selvatico in eterna transumanza. Un viaggio così è un omaggio a sé stessi, all’incanto più arcano che è l’ascolto.