“Com’è bella la storia passata: un convento medievale, meravigliosamente quieto, pieno di religiosità e di spirito umano e divino; il presente invece e una brutta fabbrica”. Così Thomas Carlyle, nella introduzione al suo pamphlet politico, “Past and present” del 1843, dove suggestivamente rivelava la nostalgia romantica per il Medioevo, da Scott a Coleridge, quando rifiutava l’età moderna, laida e brutale, melanconicamente orfana della pietas cristiana, di fronte all’impetuosa realtà industriale che già Dickens cominciava a descrivere col celeberrimo “Canto di Natale” dello stesso anno.
Il fenomeno letterario non era nuovo nella cultura europea: l’illustre critico Mario Praz lo aveva ritrovato in un suo saggio del 1933, dove individuò tale forma letteraria nel primo ottocento inglese, il romanzo di ricreazione dello spirito, dove il protagonista fugge da una realtà che lo pone a disagio (“l’agonia del romanticismo”). Ma la relazione fra letteratura e disagio sociale e individuale – dove perfino la religione avrebbe il sottile fine di illudere il popolo con la falsa speranza di un rifugio da una realtà precaria, fenomeno che Marx aveva ribattezzato ”l’oppio dei popoli” – era già ben radicata nella cultura germanica di metà ‚700 per merito di un precursore di Kant, Alexander Gottlieb Baumgarten, berlinese, creatore di un profetico rapporto fra filosofia e poesia, inventore di una categoria delle scienze sociali, la cosiddetta estetica, una forma di arte liberale che riguardava la tradizionale conoscenza irrazionale, quella che i romantici di lì a poco chiameranno fantasia o immaginazione, fino a divenire nella realtà del ‚900,”realismo magico”, oppure per dirlo con Croce, “idealismo magico”. Protagonisti di questa affascinante corrente letteraria furono Jean Paul, Novalis, Tieck, Wachenroder, Schelling, E.T.A. Hoffmann, per poi transitare in Inghilterra, con il pittore Füssli, Walter Scott e Byron. Ma poi occorre citare la “Märchen” di Goethe e tutta la letteratura fantastica fiabesca di “Alice nel paese delle meraviglie” di Carroll e Mary Shelley per “Frankenstein”, nonché il vampirismo che imperversò fino al decadentismo, dal romantico Polidori (1816), fino al “Dracula” di Bram Stoker (1897).
Si dirà che tale amplissimo fenomeno letterario sia ai confini della fantascienza e dunque si rimaneva nella semplice letteratura di evasione, nota ai critici già nell’età greca e nella stessa Bibbia, tanto che non pochi filosofi della storia – da Herder a Vico – misero in guardia dal rischio di confondere mito e storia, realtà e finzione, letteratura e cronaca. Ma fu Goethe e poi l’intera letteratura di viaggio dall’illuminismo al neoclassicismo, dall’età romantica al positivismo, fino all’esistenzialismo del ‚900, a connotare di „escapismo“ il crescente senso di estraneità e di disagio dell’uomo autentico contro le ormai consuete ipocrisie del quotidiano. Se il suo viaggio in Italia simboleggiò il tentativo di rinnovare e di ricreare l’animo del poeta ormai stremato dalle continue polemiche e vessazioni alla Corte di Weimar; nondimeno un nostro poeta, nel difficile passaggio dalla cultura umanista a quella borghese napoleonica – Ugo Foscolo – rappresentò il medesimo disagio. Era proprio la dinamica del movimento verso altre latitudini la via concreta per superare le diseguaglianze sociali dell’epoca, dove il quotidiano era ormai votato al mero profitto capitalistico. Ciò spinse già la famiglia del nostro poeta, di tradizioni liberali – anche perché figlio di un medico di bordo della marina veneta – a spostarsi dalla natia isola greca di Zacinto verso Spalato, quando Ugo aveva appena 6 anni. Poi, Venezia dal 1793 al 1797, dove studiò e frequentò biblioteche alla ricerca dei classici, bazzicando da giovanissimo i vari salotti letterari illuministi. Qui conobbe Ippolito Pindemonte e scrisse rime d’amore, ammirò i già famosi “Canti di Ossian” e risentì nell’animo le vicende rivoluzionarie francesi. È il periodo dei “Sepolcri”, inno rivolto al passato glorioso dell’Italia e primo momento di fuga dalla realtà dei “parrucconi” e dell’annientamento del proprio Io nella società borghese dell’opulenza mercantile veneziana, dove la originaria bontà del genere umano, gli amori infelici e le virtù della cavalleria medievale, ben miscelate con le suggestioni notturne e cimiteriali, lo portavano ad apprezzare Byron e Shelley. Ben presto, malvisto dal regime austriaco insediatosi a Venezia dopo la pace di Campoformio del 1797, Foscolo raggiunse Milano e qui visse nella libera repubblica Cisalpina, viaggiando come un “esule in Patria”, fra Parma, Genova e Firenze, sfruttando la carica di ambasciatore napoleonico, scrivendo odi e romanzi, fra cui “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, un’eco del “Werther” di Goethe che lasciò un po‘ perplesso il maturo Vate di Weimar, ormai passato alla quiete ideologica lontana dal giovanile titanismo.
Ugo, invece, restava sempre ribelle, mai domo, fra lutti familiari, amori interrotti, delusioni per Napoleone e la sua classe dirigente non troppo diversa da quella abbandonata a Venezia, altrettanto mercantile e affarista ben integrata con la burocrazia austro/ungarica. Nel 1804 è a Parigi, dove incontra il giovane Manzoni e dove amerà la donna della sua vita, Fanny Hamilton. Poi ritorna nel 1806 a Milano, dove insegnerà letteratura italiana. Scriverà “Aiace” contro Napoleone imperatore e poi si scalderà contro il poeta fautore del nuovo regime monarchico, Vincenzo Monti, circostanze che lo porteranno ancora una volta a Firenze. Qui tradurrà il “viaggio sentimentale” dell’inglese Laurence Sterne, suo modello intellettuale che lo convincerà a trasferirsi a Londra. Nel 1813, tornerà a Milano quando ormai l’odiato Napoleone abbandonerà l’Italia e gli Austriaci arriveranno per la gioia libertaria di un Foscolo diverso nella sua relazione con il mondo germanico, ma sempre in fuga, un viaggiatore ormai eterno per sanare la sua infelicità interiore. Quindi nel 1815 un breve soggiorno in Svizzera a Coppet da Madame de Staël e poi finalmente a Londra nel 1816, accolto dalla cultura inglese con benevolenza, docente di italianistica e saggistica letteraria, apprezzato portatore della storia d’Italia, da Dante a Petrarca, da Boccaccio ai classici latini. Solo che il carattere introverso, astioso, stravagante e pieno di rancore contro la nuova borghesia conformista lo renderà presto un isolato, anche perché la sua notoria passione per „Bacco, Venere e gioco”, lo porterà prima in prigione per debiti (1824); poi alla povertà negli “slums” portuali e infine alla morte per tubercolosi nel 1827.
E proprio pensando a lui che Mario Praz definì “escapismo” quell’ansia di fuga dalla realtà che il viaggio perenne diveniva un genere di vita, perché “escape” in inglese è sinonimo di fuga, ma anche di breve stasi di pace fra momenti terribili, svolte ineluttabili per chi mal sopporta i contrasti quotidiani. Circostanza che non si è attenuta nel nostro secolo, anzi si è perpetuata in Germania, dove un critico letterario della nuova Germania post-nazista, Alfred Andersch, chiamò “Eskapismus” la scappatoia letteraria, una sintesi verbale che riordinò le confuse anime culturali del popolo tedesco dopo la catastrofe della guerra. Ciò non fu solo la riconferma della letteratura di genere (fantascienza, giallo, realismo magico, ecc, ecc, ); ma anche della fiabistica, dove venne difeso il diritto al sogno e alla fantasia, come via di liberazione da un presente oppressivo e inautentico (se pensi alla “Compagnia dell’anello” di Tolkian e “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, quando l’utopia diventa distopia, cioè quando la speranza di rinnovamento si tramuta in una visione del futuro drammatica e ben più tragica del presente già difficile). Ma è possibile che una terza via sia esteticamente prospettabile: la via di un viaggio che veramente possa trasformare il presente. È la soluzione di Hermann Hesse. Lo scrittore della foresta nera, al pari del veneziano Foscolo, toccò la Svezia, l’Italia (Firenze, Venezia, Ravenna ), l’India, la Svizzera – qui da esule perché antinazista – rimanendo a Montagnola con il corpo, mai con la mente. I suoi romanzi spaziano nelle epoche e nei territori più lontani: dall’India col famoso “Siddharta”, alle steppe della Russia in veste di lupo selvaggio. Pellegrino, studente, borghese e proletario, un uomo per tutte le stagioni.
Il suo messaggio si convertiva all’utopia, nel senso che qualunque estraneità al mondo attuale, anche se in apparenza si fosse limitata alla fuga momentanea – come nel caso della televisione e del cinema, – benché portava a criticare la società massificata e conformista, recava pure una reazione differenziata e significativa. Cosa che costituiva una reale opposizione, un cantare fuori dal coro non solo distruttivo, ma anche creativo di nuovi valori, magari occasionalmente legati alle radici dell’uomo, ovvero non del tutto rinunziabili né negoziabili. Questa era per Hesse l’unica via per garantire quel mutamento delle diseguaglianze individuali e sociali, la giusta mediazione fra giustizia sociale e libertà personale. Una linea di pensiero che Hesse costruirà opera dopo opera, fino all’ultimo romanzo che gli procurò nel 1946 il Premio Nobel, “Il gioco delle perle di vetro”. Nato come aperta critica al regime nazista, l’opera finale dimostra come l’animo umano sia un immenso affresco, magari caotico e disordinato, ma sempre contrario alla violenza e aperto all’amore reciproco, quando un concerto di Beethoven può essere apprezzato da un fisico quantista. Un quadro dell’umana conoscenza che rende attuale ogni presunta illusione e che toglie ogni ragione alla fuga dalla realtà.