Un viaggio nel mondo dell’antimafia e che cosa ne resta oggi
Il 1982 è un anno di svolta: a Palermo Cosa Nostra uccide il 30 aprile il parlamentare Pio La Torre e il suo autista Rosario di Salvo. Pochi mesi dopo, il 3 settembre, saranno il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro ad essere vittime di un vile attentato, sempre nel cuore del capoluogo siciliano. La mafia siciliana mostra il suo volto crudele lasciando una scia di sangue proprio sulla via di uscita verso la legalità, rappresentata proprio da Pio La Torre, esponente del PCI, impegnato già dagli anni ’50 nella lotta alla mafia e dal Generale Dalla Chiesa, reduce da una lunga lotta al terrorismo brigatista e che era arrivato a Palermo per garantire l’ordine nel bel mezzo di una guerra di mafia che era già costata oltre mille vittime.
Ma lo Stato, per la prima volta, reagisce: il 13 settembre 1982 viene promossa la legge tanto voluta da Pio La Torre, la legge “Rognoni-La Torre”, che introduce il 416 bis nel codice penale e, dunque, il reato di associazione mafiosa e la possibilità di confisca dei beni ai danni dei condannati per mafia. È l’inizio, se così vogliamo, dell’antimafia.
40 anni dopo, nel suo nuovo libro “L’antimafia tradita” (Zolfo editore, 2021), Franco La Torre – figlio di Pio La Torre – ricostruisce innanzitutto il fil rouge che unisce tutti i movimenti antimafia. La Torre ci regala un’interessante ricostruzione storica, dettagliata e ricca di aneddoti, che ci fa conoscere il mondo dietro le quinte dell’antimafia, i motivi che hanno spinto soprattutto i parenti delle vittime di mafia ad attivarsi personalmente contro ogni forma di criminalità organizzata, spendendo ogni minuto del loro tempo libero per informare la società civile, dirigendola verso una cultura della legalità. “Il familiare di una vittima innocente di mafia”, scrive La Torre, “porta un fardello grave e doloroso, che spesso sostiene isolato all’interno della famiglia e, talvolta, senza neanche il suo sostegno”. Poi aggiunge: bisogna attraversare “un percorso interiore di elaborazione del lutto e questo non favorisce l’apertura verso l’esterno, che non sempre riconosce, accoglie e partecipa”.
Franco La Torre parte nel suo racconto dalla fine dell’Ottocento, dal movimento dei fasci siciliani, al quale aderiscono centinaia di migliaia di braccianti, donne e uomini, a costituire il primo movimento contro Cosa Nostra, organizzando scioperi, scontrandosi con i campieri mafiosi. Le vittime di quella lotta saranno numerosissime: 108 morti dal gennaio 1893 al gennaio 1894. In questa ricostruzione storica dell’antimafia non poteva certo mancare Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro di Corleone, che per anni si scontrò con la mafia battendosi per i contadini. Fu il boss Luciano Leggio (detto “Liggio”) a firmare la sua condanna a morte nel lontano 1948. Poi tocca a Giuseppe (detto “Peppino”) Impastato e alla sua morte annunciata nel 1978. Con la sua lotta nasce un’antimafia militante: la creazione del Centro siciliano di documentazione di Umberto Santino e Anna Puglisi è datata infatti 1977. Nel 1980, poi, si costituisce come associazione culturale, intitolata a Impastato e diventando un punto di riferimento importante per lo studio del fenomeno mafioso.
Sempre nel 1980 nasce, per iniziativa di Giovanna Giaconia, moglie di Cesare Terranova, l’Associazione Donne siciliane per la lotta contro la mafia – unica nel suo genere. Interessante è anche il riferimento al giudice Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo (di cui facevano parte Falcone e Borsellino): Chinnici – scrive La Torre – fu il primo magistrato “a parlare in pubblico della mafia e dell’impegno antimafia”. Andava nelle scuole per rivolgersi agli studenti, per farli ragionare sulla mafia e, in particolare, sulle droghe. In quegli anni, siamo nel pieno dell’attività del pool antimafia a Palermo e nel bel mezzo della “primavera di Palermo”, nascono iniziative anche fuori dalla Sicilia: a Milano, nel 1985, cento soci fondatori, guidati da Nando dalla Chiesa, presentano Società Civile, un circolo attivo fino alla fine degli anni Novanta del quale hanno fatto parte Giorgio Bocca, Gherardo Colombo e Giampaolo Pansa. Nel gennaio ’91 viene creata la “Rete”, la formazione politica di Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, Alfredo Galasso, Claudio Fava, Carmine Mancuso e Letizia Battaglia. E dopo le stragi del 1992 che costarono la vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Palermo – spontaneamente – viene fondato il celebre “Comitato dei lenzuoli”. I siciliani onesti, vogliono dimostrare alla città e all’Italia intera che da quel lutto avrebbero ripreso la lotta. Il lenzuolo bianco, che in varie culture e religioni è il colore del lutto, manifesta in questo caso la voglia di reazione, di dire basta. Gli anni ’90 saranno, forse, gli anni più intensi dell’antimafia, soprattutto come attività di buona parte della società civile, quella che non vuole stare più in silenzio.
Ma Franco La Torre non si limita a tracciare le tappe storiche dell’antimafia. Il suo intento è un altro. La Torre si chiede come mai oggi, dopo la grande stagione antimafia degli anni ’90, l’antimafia sembra essere diventata “uno stanco rito dove sempre le stesse persone ricordano i caduti di una terribile guerra?”. Un motivo va sicuramente cercato nel nuovo volto delle mafie, che non sparano più e preferiscono concentrarsi sugli affari. Un’altra risposta, ancor meno rassicurante, la propone Franco La Torre: la crisi di cui l’antimafia soffre è il risultato “dell’inadeguato senso di responsabilità e dell’agire incoerente della nostra classe dirigente, della difficoltà di aggiornare la lettura del fenomeno mafioso e dell’incapacità di costruire e nutrire ampie alleanze”. Parole chiare e per un certo verso politicamente scomode, indirizzate soprattutto a chi dell’antimafia fa una moda per fare politica, delegittimando lo scopo stesso di questo importantissimo movimento per la società civile.
Un caso eclatante, che La Torre racconta nel suo libro, riguarda l’imprenditore Antonello Montante, che nel dicembre del 2014, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, viene nominato componente del Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per la Gestione dei Beni sequestrati e confiscati, indicato da Confindustria. Dopo qualche settimana, nel febbraio del 2015 si autosospende e il 22 luglio 2015 rassegna le dimissioni. Difatti, le indagini della magistratura svelano che Montante era stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali. Una vicenda questa, che fa sorgere spontanea una domanda: come mai nessuno sapeva chi era veramente Antonello Montante? Come mai anche chi ha fatto dell’antimafia una ragione d’essere non ha avuto il coraggio di parlare di questa vicenda condannando il diretto interessato?
La Torre, infine, ripercorre anche la sua vicenda personale, il suo ruolo come membro dell’Ufficio di presidenza dell’associazione “Libera”, il suo impegno per costruire una rete internazionale antimafia (Flare – Freedom Legality and Rights in Europe, una rete che raccoglie circa 40 organizzazioni impegnate nel contrasto al crimine organizzato, tra cui anche “Mafia, Nein Danke”) e il suo tentativo di attivarsi in politica nel 2012 con Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, un impegno che però non ha avuto il successo auspicato.
Infine, La Torre ricostruisce l’intera vicenda che lo ha portato a lasciare “Libera”. E lo fa con amarezza, spiegando ai lettori che tutt’oggi non è riuscito a capire come mai si sia logorato il profondo rapporto personale e di fiducia che lo ha legato per molti anni proprio a don Luigi Ciotti, il fondatore di “Libera”. Con una certa amarezza La Torre a proposito scrive: “l’aspetto che mi ha colpito di più è stata l’adesione immediata a una sorta di damnatio memoriae nei miei confronti. Con un colpo si cancellava ogni traccia che mi riguardasse, come se non fossi mai esistito, come se ci si vergognasse di me. Il figlio di Pio era scomparso e, se proprio fosse necessario parlarne, si era trasformato nel signor La Torre”.