Un viaggio grottesco tra genio e follia nella paura della guerra nucleare
Sono passati più di 62 anni dal debutto teatrale del dramma grottesco I fisici di Friedrich Dürrenmatt, presentato al Schauspielhaus di Zurigo il 21.2.1962, ma già in libreria fin dal 1961. Scritto di getto senza divisioni in atti e con nessun personaggio femminile, nel 1981 viene rimaneggiato in più scene e con un personaggio femminile, Mathilde von Zahnd, nella parte della dottoressa direttrice e proprietaria del manicomio dove si svolge l’azione scenica.
Rimane però immutato lo spirito caustico ed l’obiettivo pedagogico dell’opera, una pièce che vale di per sé l’intera carriera dello scrittore di lingua tedesca, non secondo a Brecht, Mann e Kafka e che da allora merita di essere mai più dimenticato. Parliamo cioè di Friedrich Dürrenmatt, un narratore del secondo dopo guerra nativo della Svizzera tedesca – Stalden im Emmental, 5.1.1921 – che un profano della storia del teatro potrebbe citare per reminiscenze di un formaggio con i buchi, magari gustoso, ma da evitare se si è come tanti di noi malati di colesterolo in eccesso.
I Fisici però non è una buona commedia agrodolce come le numerose pochade classiche francesi ed americane di inizio secolo, ma è originalissima ed assai inquietante per il contesto storico che ne giustifica la scrittura altamente grottesca e che forse produsse nell’animo dell’autore una volontà formativa analoga agli illustri contemporanei or ora citati. Chiunque si ponesse a studiare gli eventi politici di quel periodo troverebbe innumerevoli segnali di guerra fredda, dal muro di Berlino ai fatti di Cuba, dalla guerra civile in Congo, dalla ripresa degli esperimenti nucleari ed alla segregazione razziale in U.S.A. Episodi che alimentavano la grande paura della guerra atomica e che sollecitavano gli intellettuali già ad avvertire le minacce alla biosfera da parte dello sviluppo industriale.
Il più famoso scienziato del ‘900, Albert Einstein, poco prima di morire aveva avvertito: la quarta guerra mondiale sarà combattuta con archi e frecce. Günther Anders invocava l’obbligo della obiezione di coscienza dello scienziato fino a sospendere la ricerca nucleare, se avesse avuto la coscienza di un inevitabile conflitto nucleare dopo aver rivelato all’opinione pubblica il carteggio epistolare con Claude Eatherly, il pilota che sganciò la bomba nucleare su Hiroshima. Robert Oppenheimer, uno dei principali collaboratori alla creazione di tale ordigno, pur avendo ignorato i moniti del maestro Albert, proprio durante la pericolosissima crisi della guerra di Corea, aveva cambiato opinione. Confessò con dolore: “Io sono il responsabile di quel disastro… io sono la morte… io sono la distruzione del mondo!”. E qualche mese prima dell’uscita del dramma dello Svizzero, Martin Heidegger, nelle sue celebri indagini su Nietzsche, spiegava il silenzio di Dio sul mondo a causa dei mali incurabili dell’Uomo, mentre Adorno tuonava contro Auschwitz, suggestionando tutti i lettori dell’occidente in merito alla fine della memoria, che da quel tragico evento era divenuta un’araba fenice…. Il concetto audacissimo della morte di Dio, ovvero della fine della Morale e della società priva di ogni freno diretta al disastro irreversibile, senza fede e senza speranza, priva di ogni carità fraterna, colpì sicuramente Dürrenmatt, che non poteva restare inerte per animo e formazione culturale.
Chiuso nella sua villetta nella pacifica Neuchâtel, si chiedeva come rappresentare ironicamente i rischi di un Homo Faber del tutto alternativo dell’Homo Sapiens. La profezia, l’arte del narrare e lo spirito dialogico irruppero nella sua coscienza di cristiano, anche perché l’ambiente familiare lo portava ad essere impetuoso e radicale, sarcastico e pieno di speranza nell’Uomo, al pari di Nietzsche e van Gogh, tutti figli di pastori protestanti che incarnavano lo stile pedagogico di Lutero e di Calvino, non disgiunto da un pessimismo cosmico ironico e grottesco. Del resto già nel 1947 aveva rappresentato Romolo il Grande, ultimo imperatore romano, nelle vesti di un povero allevatore di polli; oppure quando nel 1956 mise in scena La visita della vecchia signora, dove una donna anziana orchestrava una strage per vendicarsi di una violenza sessuale subita in gioventù.
I bersagli sistematici delle due commedie – o tragedie – erano l’onnipotenza del denaro, la corruzione ed il rigetto della società capitalista. Realtà già attaccata dal coevo Brecht, ma con in più una evidente patina di comicità grottesca che rendeva travolgente la ricostruzione di tragiche vicende che avevano lacerato i valori umani e cristiani. E qui nasce l’istanza all’epoca diffusa: come prevenire il rischio di uno scienziato irresponsabile, moralmente illuso dal prevalere dell’utile sul valore e dunque del progresso continuo a prescindere dall’Uomo? Il tentativo di portare a teatro la figura dello scienziato esaltato e folle fautore del potere creativo umano – già adombrato da Goethe nel poema L’apprendista stregone del 1797 – era stato attuato da un collega, Carl Zuckmayer, il cui atto di accusa era drammaticamente presentato in termini ferocemente anticapitalisti. Nel dramma La luce fredda del 1955, risuonavano grida predicatorie e millenaristiche condite di tecniche surrealiste ed un linguaggio carico di pathos, una scenografia orrifica, che cercava di simboleggiare l’esplosione atomica, ma che non ebbero alcun successo di pubblico e di critica.
Lo Svizzero ebbe invece la felice intuizione di esprimere la tragica realtà degli anni ‘60 risalendo piuttosto ad Aristofane ed a Plauto. Riprese anche lo schema del Kabarett tedesco e del poliziesco americano, intriso di spionaggio anglosassone. A poco a poco, emerge un senso del macabro, che poi precipita nel nichilismo esistenziale di ispirazione calvinista, con chiare frecciate all’ipocrisia borghese. L’estetica umorista si concentra sul ridicolo sociale che si abbatte tragicamente sul singolo senza alcun pudore. Sconcerta lo spettatore l’uso della satira e che prelude i punti caldi di allora, ma anche di ora, con guerre e morti eccellenti giorno per giorno. Una tecnica espositiva che da Zurigo a Londra, da Parigi a New York, scosse i teatri occidentali che prende in giro i fisici ed il mondo accademico, la politica e la medicina psichiatrica.
Malgrado qualche contestazione del mondo scientifico per la necessaria semplicità dell’azione scenica “ma se si fosse sceso nella riflessione teorica non avremmo allontanato il pubblico dallo spirito dell’opera?”, ribatté l’autore stesso. Rilievi analoghi a quelli che ebbe Benigni dal mondo ebraico per il film La vita è bella.
La commedia fu così un successo popolare. In Italia, mai un testo teatrale contemporaneo salì così presto sul palcoscenico della Rai nel 1968. Attori di calibro leggero, come Ernesto Calindri e Gianrico Tedeschi, ne fecero un monumento per i posteri.
Veniamo alla trama, anche se il necessario riassunto può svilire la bellezza del dialogo e del linguaggio. Come in un Kabarett, la scena è unica, un salotto di una casa di una famiglia moderna, ma l’ironia è quella di apparire come un salone di un manicomio. Gli abitanti sono quelli di una famiglia comune: un padre, Möbius, unico vero fisico che si è volontariamente internato per evitare di essere catturato dalle due Superpotenze, entrambe desiderose di acquisire una sua formula assoluta che è capace di reggere il mondo intero, fondata sull’energia nucleare, come la leva di Archimede idonea a sostenere il mondo intero.
Costui non è pazzo, ma lo finge per salvare sé ed il mondo. Poi ci sono i figli, che simulano anch’essi la pazzia e si fanno chiamare per celia Newton ed Einstein. In realtà, sono due spie degli U.S.A. e dell’URSS a caccia della predetta formula. La figura materna è data dalla direttrice, la dottoressa Mathilde, l’unica che si crede savia, ma alla fine si mostrerà affetta da una follia sterminatrice, quasi un Hitler in gonnella.
Nei vari quadri che si succedono accade di tutto: inseguimenti, ferimenti, omicidi, stupri e chi più ne ha più ne metta, con l’alternarsi di risate, di paure improvvise, situazioni statiche e di colpi di scena, a carico di visitatori, pazienti e terzi che per caso potrebbero avere avuto relazione con Möbius, la cui vita è appesa ad un filo e che è legata alla sua formidabile capacità di prevedere il furto della formula. E quando ambedue i figli arrivano a prenderlo in castagna con una carta che sembra essere il testo della formula, Möbius scoppia a ridere.
Anche l’ultima vittima, l’infermeria personale del fisico, forse innamorata di lui e conscia della sua salute, cade sotto i colpi delle due spie. Sembra che Möbius abbia vinto, visto che quella risata satanica rivela che la formula è soltanto nella sua testa e che dunque è sempre al sicuro. Ma all’ultimo il classico colpo di scena: nella foga erotica di Möbius per l’infermiera, mentre i due falsi pazzi cercavano la formula, la Direttrice si rivela a sua volta un altro agente segreto che riesce alla fine a fotografare la formula prima che Möbius la bruci ed a venderla a terzi sconosciuti. Chi è il mandante della direttrice?
Qui, Dürrenmatt sfodera la sua verve: sembra un Terzo Paese in ascesa, forse la Cina. Oppure è un privato, un Potere forte, magari oggi diremmo un Elon Musk, un capo cricca di Finanzieri che reggono l’economia mondiale, spesso nostalgici del Nazismo, pronti ad eccitare le folli come negli anni ‘20. Ed i poveri fisici? E noi che tanto li abbiamo amato perché eroi del Progresso e donatori di un futuro migliore? Non possiamo perciò che fingerci matti, ciechi e sordi come le famose scimmie della favola di Giambattista Basile. Rassegnarci a stare fuori dalla stanza dei bottoni e fare come il consigliere di Stato Martino Lori che Pirandello immortala in Tutto per bene, l’omonima novella di Pirandello del 1906, dove questi si avvia alla catastrofe familiare pur sapendone le cause, ma impotente ad evitarle. E’ questa conclusione amara del messaggio di Dürrenmatt: la paura di sapere come finirà senza essere in grado di interrompere la catena che ci porta alla distruzione. È la storia di Adamo ed Eva, che infrangono l’ordine divino di non mangiare il frutto del bene e del male e che comunque lo fanno per mera volontà di rivolta. In altre parole, la domanda irrisolta del millennio è se la conoscenza scientifica ha un limite nella sicurezza della specie. La forma ironica ed il fine pedagogico è però sufficiente a salvarci?