Che impressione ti ha fatto la città la prima volta che ci sei venuto?
È una città piccola, per cui la prima domanda che sorge spontanea è come, in questa cittadina, possa esistere un festival musicale di tale portata internazionale. Studiando poi la storia del festival, che quest’anno ha celebrato la sua 30sima edizione, si capisce che esiste uno storico non indifferente. Sono rimasto molto colpito dalla grande abbondanza di parchi in città, che ti invita ad una ricerca di un benessere fisico e spirituale, anche per il ritmo di vita che è molto più lento di quello di quello della vita quotidiana. E, in occasione del festival, si respira musica a 360°C.
Quando è stato, invece, che tu hai respirato musica per la prima volta e come si è strutturata la tua formazione.
Quando avevo poco più di quattro anni, ci siamo trovati a casa di amici di mia madre. La figlia di questi amici suonava il pianoforte e sembra che io ne fossi rimasti incantato. L’asilo che frequentavo era accanto alla scuola elementare di mio fratello che aveva, tra gli insegnanti un maestro di musica. Costrinsi mio fratello e presentarmi il maestro di musica e a quest’ultimo dissi chiaramente che volevo andare a lezione di musica. Il maestro chiamò mia madre per parlarne con lei e fu così che, da lì a poco, iniziai a suonare il piano. Per quanto riguarda la formazione, oltre al pianoforte ho seguito anche corsi di percussione, di composizione e di direzione d’orchestra, perché volevo allargare le mie conoscenze. Ho iniziato a lavorare, molto presto, nel teatro d’opera il che mi è servito perché, secondo me, è lì che uno impara davvero il mestiere (come hanno fatto anche i grandi maestri del passato), perché questo non si può imparare con lo studio. Il mondo operistico è un mondo a parte. Ho avuto la fortuna di collaborale con grandi maestri come Kent Nagano, Zubin Mehta, Lorin Maazel, Riccardo Muti, Bruno Bartoletti, Daniele Gatti, Fabio Luisi, Semyon Bychkov, Ivor Bolton, Gianandrea Gavazzeni, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Rafael Frühbeck de Burgos, Marcello Viotti e Peter Schneider: tutto questo mi ha arricchito e formato. Pur avendo un rapporto di rispetto con tutti, quello a cui sono più legato è il maestro Mehta, perché ci lega un affetto quasi familiare. Quando studiavo, poi, mi ricordo che risparmiavo il più possibile per riuscire a venire a Monaco di Baviera e seguire delle lezioni aperte, senza mai pensare che, alla fine, sarei finito qui a lavorare.
Il tuo «trasferimento» a Monaco di Baviera, come è avvenuto?
Quando già collaboravo con il Maggior Musicale Fiorentino, mi recavo spesso a Salisburgo per perfezionarmi e, a seguito di un’intervista pubblicata sul Il Corriere, scopri il maestro che dirigeva a Monaco e il fatto che dava delle lezioni aperte a una piccola cerchia. Nacque, all’epoca, l’idea di trovare occasioni per venire più spesso a Monaco. Pensai così di inviare una lettera al teatro candidandomi. Mi venne risposto che al momento non c’erano disponibilità, ma che, avrebbero tenuto presente la candidatura per future possibilità. Iniziai così a lavorare al teatro La Scala e, dopo anni, mi arrivò l’invito per un’audizione a Monaco. Devo ammettere che, all’inizio, ero un po’ titubante perché avevo una buona posizione. La curiosità di provare e di avere un’esperienza all’estero mi spinse ad accettare l’invito per l’audizione. Anche se questa andò bene, mi ci vollero 18 mesi prima di accettare e trasferirmi. Pensavo di starci solo due anni e invece…
Monaco non è la tua unica esperienza all’estero: hai lavorato, tra l’altro anche in Canada e Israele. Cosa ti hanno insegnato queste esperienze internazionali?
Mi hanno aperto la mente in una maniera incredibile, perché mi hanno permesso di venire la stessa cosa da mille angoli diversi. Dal punto di vista musicale è un altro arricchimento da non sottovalutare.
Che tipo di direttore d’orchestra sei tu?
Difficile dirlo, bisognerebbe chiederlo ai musicisti con cui lavoro: a volte fila tutto alla perfezione a volte, invece, è più difficile ottenere l’armonia per cui bisogna lavorarci di più. Quello che io cerco di fare, ogni volta, è di rendere giustizia alla partitura, mettendo i musicisti nella condizione di dare il meglio, rendendoli coscienti del ruolo che hanno e del fatto che sono parte di un tutto.
Quando ti senti soddisfatto dopo uno spettacolo?
Ovviamente quando è andato bene. In questo caso è sempre una soddisfazione rendersi conto di essere riusciti a dare corpo alla musica, dando tutto di se stessi.