Bertrando Spaventa. Un filosofo napoletano poco metafisico ed un logico molto materiale
Il 10 maggio del 1860, un maturo filosofo napoletano, Bertrando Spaventa, leggeva a Bologna, appena passata dal Regno Pontificio allo Stato piemontese, una prolusione del suo nuovo insegnamento, la filosofia del diritto, conferitogli dall’allora dittatore di Modena, Luigi Carlo Carini, politico fedelissimo di Cavour: Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI fino al nostro tempo. Chi era costui? Era nato a Bomba, nella borbonica Chieti (1817), in una famiglia piccolo borghese, non tanto benestante. Dotato di grande diligenza fin da giovane, era particolarmente versato in matematica e filosofia. Con non poco sforzo della famiglia studiò a Montecassino presso i Benedettini insieme al fratello minore Silvio, che fu un famoso mazziniano e poi deputato della destra storica, fino a diventare ministro dell’economia e dei lavori pubblici nel governo Minghetti (1873). Furono avviati ambedue alla carriera ecclesiastica, una redditizia professione per chi era dotato di ingegno anche nello Stato italiano ex borbonico.
Nei primi anni ‘40 dell’800, il regno di Ferdinando II sembrava caratterizzato da un certo vento liberale, sull’onda di Carlo Alberto di Savoia e di Filippo d’Orleans a Parigi, Regni dove la morsa conservatrice austroprussiana si era fatta più lenta per effetto di governi borghesi moderati che avevano favorito Costituzioni più liberali sul modello inglese. Un gruppo di intellettuali, con gli Spaventa in testa, apriva le porte alle nuove idee mazziniane del Nord e per Bertrando le idee di unità, libertà e democrazia liberale diventavano, lettura dopo lettura, la scoperta di un mondo nuovo, dove il pensiero di Bruno, Campanella, Vanini e Vico gli sembravano ormai familiari. Spinto dal fratello, pur insegnando privatamente, imparò l’inglese, il francese e si spinse addirittura al tedesco, traducendo Spinoza, Kant, Fiche, Schelling. Preferì fra gli stranieri però un autore fino ad allora poco conosciuto, Hegel, di cui lesse con avidità La fenomenologia dello Spirito. Scoppiate le Rivoluzioni del 1848, conobbe gli sviluppi hegeliani di Marx e Proudhon, fondando addirittura un circolo di intellettuali progressisti, a cui si aggiunse il giovane De Sanctis e che aveva nel Principe Ranieri – il protettore di Giacomo Leopardi e di August von Platen – un intelligente e buon difensore del nuovo che avanzava. Essi pretesero da Ferdinando la riattivazione della costituzione siciliana del 1812, emanata dal nonno Ferdinando IV a Palermo durante la occupazione francese del Regno Meridionale, intrisa di diritti civili e politici ispirati dal Governo inglese e fondate sulla democrazia rappresentativa.
Come è noto, il 1848 terminò con la sconfitta di questi ideali. Gli Spaventa, come tanti intellettuali compromessi dall’idea liberale, sciamarono a Firenze e poi a Torino. Qui arrivato, Bertrando ruppe con la Chiesa, si spogliò dell’abito talare e come Marx a Parigi ed a Londra, si diede alla stampa. Pubblicò decine di articoli anticlericali contro la Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti, prendendo le distanze non dal Cristianesimo – di cui riconosceva la natura progressista ideologica espressa all’epoca da Gioberti e da Rosmini – ma dalla concezione conservatrice della Chiesa Romana, rivalutando Lutero e Pascal, Giansenio e Cartesio, Leibniz e Kant. Il suo metodo di studiare era semplice, forse appreso dall’amico De Sanctis che lo aveva appreso dopo le frequentazioni che questi da giovane aveva avuto con Leopardi: la formulazione delle idee filosofiche discendeva dallo studio della storia della filosofia. E per comprendere i filosofi del passato e del presente, imparò le loro lingue, dal greco al francese, dal latino all’inglese, soprattutto il tedesco, per ritrovare con forte puntualità il filo logico che legasse il Protestantesimo con la filosofia romantica, attraverso Spinoza e Goethe, Lessing e poi Fichte, da cui trasse l’idea Criticista. Il re della filosofia contemporanea per lui era Hegel, per il fatto che aveva classificato tutti i tipi di conoscenza, facendo tesoro dei vizi e dai pregiudizi dei pensatori antichi e medievali.
La massima di Hegel – ciò che è razionale è reale: e ciò che reale è razionale – gli consentì di rompere ogni legame con la consunta filosofia italiana, testardamente fedele alla linea platonico/aristotelica e quindi al tomismo imperante della Chiesa Romana. Piuttosto, proprio nella prolusione di Bologna tentò di dimostrare, partendo dal Rinascimento, come la filosofia tedesca moderna, avesse in quel tempo avuto origine e che addirittura tendesse a ritornare appena si fossero eliminati gli ostacoli culturali e sociali che per tre secoli avevano imprigionato il pensiero italiano. Per esempio, Bruno aveva precorso Spinoza; Campanella si era posto alla base di Cartesio; Vico attraverso la metafisica della mente, aveva addirittura anticipato Kant. E la filosofia moderna di Hegel circolarmente aveva anticipato a sua volta Rosmini e Gioberti. Una lettura spiritualista di questi due ultimi autori che aveva risvegliato nel periodo risorgimentale: motivi legati alle nuove interpretazioni presenti in Europa e che tra poco avrebbero scosso la Chiesa Cattolica attraverso il movimento Modernista. Si trattava di una interpretazione un po’ forzata dallo spirito anticlericale che aveva invaso storicamente il nuovo Stato italiano, alle prese negli anni ‘60 e ‘70 dell’800 con le resistenze nobiliari e conservatrici del Sud d’Italia, come le rivolte contadine ed il Brigantaggio, fomentate dalla classe dirigente borbonica chiaramente restie a sottomettersi allo Stato laico.
L’hegelismo liberista e nazionalista si legava all’antiprovincialismo di cui la Destra al Governo era la punta di diamante, tanto più che la Francia di Napoleone III era il nemico comune non solo del nascente Socialismo, ma anche della Borghesia Prussiana di Bismarck, le cui leggi anticattoliche dopo l’unificazione tedesca avevano limitato la tolleranza verso la Chiesa romana. Bertrando – come lo stesso fratello Silvio – ebbe la felice idea culturale di comparare le due scuole filosofiche italiane e tedesche, recuperando il nostro pensiero rinascimentale, agganciando il pensiero protestante in versione pietista, molto utile a ridurre la religione ad affare di Stato, fino a riadattare, o meglio ad avviare la sintesi fra Stato etico e Società civile all’interno della Nazione. Merito suo grandissimo fu certamente quello di aver contribuito alla diffusione del pensiero tedesco in Italia e di aver contenuto ogni idea clericalista filofrancese, impedendo insieme al De Sanctis, votato al profilo letterario, l’esclusione del nostro Paese dal dibattito culturale e sociale europeo. Ma la loro comparazione e la circolarità del pensiero non gli bastarono. Fu solo la condizione necessaria; per essere sufficiente al processo di sviluppo dell’Italia appena unita occorreva un ulteriore passo avanti e Spaventa, continuando ad insegnare a Napoli fra il 1861 ed il 1881, conquistò un altro tassello che gli procurò il titolo di traghettatore del pensiero filosofico dell’800 all’olimpo dei pensatori del ‘900: l’adesione al Criticismo di Kant e l’apertura al pensiero di Gentile e Croce, due suoi discepoli che governeranno il pensiero italiano fino ad oggi.
Infatti, continuando i suoi studi su Vico, Galuppi e Gioberti, ma anche rileggendo il Rosmini, divenne pure il precursore della filosofia psicologica, della filosofia della storia e dell’antropologia culturale, presagendo Husserl, Ernst Bloch e Max Schuler. Invero Spaventa, adottando il metodo eclettico, accolse dal Galuppi la dualità fra Io e non Io, derivata dalla percezione immediata, cosa che portava alla rivalutazione dell’Essere se stesso come essere pensante ed essere conoscente, di essere cioè un uomo che vive nel mondo, unico soggetto idoneo a spiegare il reale, ribadendo la predetta formula di Hegel. Dedusse poi da Rosmini che la conoscenza spirituale era indipendente dal reale, ma si limitava a ricostruirlo con le categorie classiche dello spazio e del tempo. Mentre dal Gioberti – di cui combatteva soltanto il pensiero politico perché non riconosceva la presunta primazia degli italiani in Europa, visto che proprio i tedeschi ne avevano profittato usufruendo della nostra originaria egemonia culturale – trasse la risposta al quesito del potere della conoscenza, la quale fungeva da collante fra il reale e l’ideale per ritrovare lo spirito dell’Uomo, aderendo quindi ai due pensatori che avevano preceduto Hegel, cioè Fichte e Schelling.
Proprio il problema della conoscenza psicologica lo tormentò fino alla morte avvenuta nel 1883, quando in alcuni scritti inediti fino agli anni ‘60 del ‘900 – riscoperti dalla scuola di filosofia psicologica catanese di Carmelo Ottaviano e Domenico D’Orsi – si chiedeva: Quello che conosciamo è o no la verità? O non è forse una rappresentazione illusoria ed allucinatoria di quello che vediamo? Esiste forse una entità sconosciuta che regola la nostra esistenza? Sembra di leggere già qualche passo di Gentile, che argomentò quasi trenta anni dopo come ogni realtà esiste solo nell’atto che la pensa, vale a dire l’attualismo, nonché il costruttivismo relativista di Karl Popper, per cui non esistono fatti autonomi dalle teorie e che dunque nessuna conoscenza è data dalla realtà quotidiana, ma è sempre figlia di una conoscenza precedente. Lo spavento dello Spaventa – ci si consenta il gioco di parole – era che non esisterebbe alcun mondo esterno che ci limita, se non il fatto che siamo Noi stessi di volta in volta a volere ciò che vogliamo volere. Una conclusione da uomo del ‘900 e lettore di Pirandello, di Sciascia e di Camilleri.