Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 25.6.1926 – Roma, 17.10.1973) e Elio Vittorini (Siracusa, 23 luglio 1908 – Milano, 12.2.1966)
Un classico tema letterario, ma anche di storia e di vita sociale, è quello di individuare analogie e differenze fra due colossi della letteratura, specialmente quando i due protagonisti non solo sperimentano una loro peculiare lotta per la sopravvivenza intellettuale in società conformiste e negate alla diversità da qualunque parte provengano; ma anche quando la loro storia è coeva alle sollecitudini delle realtà storiche e sociali. La Klagenfurt della Carinzia austriaca del 1926 e la Siracusa italiana – o meglio siciliana – del 1908 poco divergevano se non per la lingua e la lontananza geofisica.
Elio Vittorini e Ingeborg Bachmann, pur avendo 18 anni di differenza, venivano da due famiglie ambedue piccolo borghesi e conservatrici: l’una di matrice operaia – madre casalinga, padre ferroviere, alieno da interessi politici e soggetto spesso a trasferimento da buon dipendente pubblico – passava l’infanzia dietro i vetri a guardare le tante cittadine di provincia siciliane dove il padre e la famiglia stazionavano servizio dopo servizio, sognava il mondo lontano ed era affascinato dal treno, simbolo e strumento di fuga da un presente economicamente non roseo, visto che la famiglia si era ingrossata di ben tre fratelli. La seconda era nata nel primo dopoguerra in una desolata città dell’Austria repubblicana, soffriva la lezione militarista del padre maestro elementare e negli anni di scuola e di Università – peraltro presto abbandonati dal giovane Elio refrattario alla scuola di Ragioneria dopo una rapida presenza in Giurisprudenza (un periodo torrido della mia vita) – ruppe con la tradizione universitaria filoheideggeriana e con una tesi sulla ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger, ne smantellò l’ideologia esistenzialista, scoprendone il lato oscuro neonazista, non mancando piuttosto di avvicinarsi alla scuola del linguaggio alternativo di Wittigenstein, maestro insuperato delle forme del non detto cariche di significato implicito, tanto da influenzarla fra il 1945 il 1955 in senso altamente metaforico e apodittico di stampo classico.
Già nel 1945, la passionalità verbale e protestataria la vide in fuga da casa appena diciannovenne, come lo fu anche per Elio fra il 1913 e il 1924, prima dietro la dialettica anarchica e poi contro lo squadrismo fascista. Ingeborg invece emergerà nell’emittente radiofonica viennese Rosso – Bianco – Rosso nel 1952, con la sua prima uscita radiofonica un negozio di sogni. Intanto, Elio diede prova di intelligente ribellismo e di acuta analisi antifascista non solo nel ‘29 quando sul Mattino di Napoli riuscì a pubblicare un articolo scandaloso contro il provincialismo della cultura italiana, ma anche quando andrà in stampa una raccolta dei suo primi racconti critici antifascisti e di natura europeista, spesso legato al francese Gide e all’austriaco Musil, nonché chiaramente ispirati a Joyce. Elio li tradusse per buona parte per la prima volta in Italia, sotto l’ombrello protettivo di Curzio Malaparte, già proconsole fascista della cultura italiana.
Giovane rampollo della debole cultura ancora rimasta immune dalle pressioni del Regime, bazzicò la rivista fiorentina Solaria, il caffè degli ermetici Le Giubbe Rosse, conobbe Montale e approfondì l’inglese al punto che insieme al torinese Cesare Pavese propagandò ed interpretò i maggiori autori anglosassoni (Lawrence, Poe, Faulkner, Steinbeck, ecc.). Sono gli anni (1931-1937) di apparente riavvicinamento al Fascismo, ormai stabilizzato al Potere. Poi verranno i Capolavori: Il garofano rosso, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, il suo periodo della fame per dirla con Verdi, quando le simpatie di destra si perderanno definitivamente per approdare alla militanza comunista, non solo aderendo a Milano alla Resistenza, non solo divenendo un preparatissimo direttore dell’Unità, non solo fondando una delle migliori riviste di letteratura, il Politecnico, edita da Einaudi a Torino, ma anche e soprattutto lanciando un messaggio centrale di impegno politico, nella misura in cui la letteratura contemporanea doveva essere vera, giusta e di linguaggio adeguato alla nuova Italia postfascista. Ma era necessario però distaccarsi dall’appartenenza politica, anche a costo di contestare l’egemonia del Gramscismo del PCI di Togliatti. Scelta che gli provocò nel ‘47 la chiusura della rivista e l’abbandono della decennale adesione al PCI stesso, non prima di una violenta polemica col Togliatti stesso.
Nello stesso decennio anche Ingeborg viene segnalata positivamente dalla nuova classe intellettuale postnazista nell’Austria semidistrutta dalla guerra. Il famoso Gruppo 47, un’associazione di giovani scrittori che da Monaco a Vienna si proponeva di far rinascere la Cultura Germanica vilipesa e repressa dal Nazismo. Club di autori che le conferì un premio letterario per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato. Fu Claudio Magris che per primo, a metà degli anni ‘50, a coglierne lo spirito escapista, protestatario, astratto e metaforico, la lirica ermetica, ma anche la malinconia che traspare dalla violenza di quelle parole immaginifiche. Un pessimismo classico divenuto un nichilismo esistenziale, ormai evidenti nei successivi radiodrammi – Die Zikaden (1955) e Il buon Dio di Manhattan (1958), ma anche nella scoppiettante Invocazione all’Orsa maggiore (1956), altra innovativa raccolta di poesie, insieme al Grande paesaggio nei dintorni di Vienna (1952). Una poetica che infiammava il pubblico giovanile non solo per la complessità delle descrizioni della natura e per la ellenistica estasi mistica, ma che anche si incentrava sull’amore quale medicina più idonea a superare le difficoltà quotidiane. Un linguaggio musicale che stupì e affabulò gli amici Paul Celan e il compositore Henze, rimastole accanto in muta venerazione fino alla sorte tragica del 1973.
E Vittorini? Il periodo successivo alla fuga dalla politica oppressiva di partito è il più difficile della sua attività artistica, che riprende però alla fine degli anni ‘40 anno adottando un linguaggio scarno, pressoché popolare, sia nel breve romanzo Il sempione strizza l’occhio al Frejus (1947), e poi nelle Donne di Messina (1949). Infine riprese a viaggiare incontrando in Francia l’amico Hemingway che gli farà la presentazione all’edizione americana di Conversazione in Sicilia, divenuta la Bibbia del linguaggio corrente del mondo occidentale, operazione che costituì il fulcro del futuro programma editoriale degli anni ‘60.
In queste esperienze francesi, fra Gide, Celan e Sartre, ebbe modo di apprezzare la Bachmann, colà già arrivata e che lo fulminerà nel suo crescente pensiero di una letteratura universale europea. Ingeborg è ormai divenuta famosa per altri libretti sulla pantomima danzante dall’Idiota (1955) e per la sceneggiatura dell’opera Il Principe di Homburg nel 1960, entrambi dal sodale Hans Werner Henze. Scende quindi in Italia a Napoli e poi a Roma, dove conobbe Ungaretti e lo tradurrà in tedesco (Gedichte, Hamburg,1961). Ora l’incrocio con il nostro Vittorini è inevitabile. Dal suo nuovo avamposto culturale – la rivista il Menabò, insieme al giovane Italo Calvino – imparò il vitalismo primitivo della Bachmann, peraltro assunta nelle cronache per i frequenti contrasti privati con il suo nuovo convivente, lo scrittore svizzero Max Frisch. Vittorini intanto rinnovò il suo neorealismo pubblicando in tre parti Le città del mondo, un saggio misto tra romanzo e saggio critico sociologico (1957) che costituì un terreno comune da cui ripartire proprio con la Bachmann.
Infatti fra il 1960 e il 1963, la Bachmann esprimeva una analogo disagio nei rapporti fra società industriale e letteratura. Per esempio, il contesto del suo ennesimo radiodramma – Il buon Dio di Manhattan – riproponeva il conflitto fra umanesimo e industria nella metafora classica del rapporto di coppia. Tale era la comune esigenza di ritrovare un nuovo linguaggio che comprendesse sia il linguaggio tecnico che quello lirico evocativo. Del resto, Vittorini aveva elaborato un periodare spezzato, simbolico della vita operaia nella dinamica della Resistenza, già in Uomini e No, senza contare la scrittura antirazionalista in Conversazione in Sicilia.
E mentre Vittorini negava la sua approvazione alla proposta di pubblicare il Gattopardo per Einaudi, ritenendo il linguaggio di Tomasi di Lampedusa antico e privo di operatività nell’età del boom industriale, inidoneo nei fatti a spezzare il cordone ombelicale fra politica e impegno sociale autonomo dello scrittore; Ingeborg pubblicava la raccolta di racconti Trentesimo anno (1964), denso di amori impossibili, per esempio fra un’ondina e un diportista, assumendo una realtà onirica che superava il mito per diventare una realtà quotidiana.
Quando Vittorini le propose di scrivere un suo intervento sul Menabò n. 7 nel 1964 sul suo progetto di rivista universale a direzione europea, gestita da intellettuali italiani, francesi e tedeschi, senza alcun limite politico e con un dialogare unico nella interpretazione della nuova società industriale, a difesa dell’Umanità sofferente per le nuove conflittualità che la società europea ne risentisse; Ingeborg accettò con entusiasmo e scrisse un Diario Pubblico, nel citato fascicolo n. 7, manifestando un’aperta adesione al progetto Gulliver di rivista Internazionale. Poi le loro strade divergeranno anche per il fallimento dell’idea di Elio e del solipsismo di Ingeborg. Un’oasi di pace reciproca in quella età dell’oro che furono i meravigliosi anni ‘60 per l’Italia, interrotta per ambedue da una fulminane malattia per Elio nel 1966 e uno strano incidente notturno mortale per la poetessa nel 1973. Morti improvvise che non hanno mai spezzato la loro irripetibile simbiosi intellettuale.