Ci pare opportuno segnalare brevemente un aspetto del poeta, quello del suo ideale politico
Da quando lo scrittore contemporaneo Ferdinand von Schirach esordì con Il caso Collini nel 2011, inaugurando una serie di gialli sociali e storici spesso ripresi della sua attività forense, la critica letteraria non solo di lingua tedesca ha trapiantato la diffusa intitolazione delle questioni letterarie, sotto la categoria “caso” per individuare un tema controverso e di difficile delimitazione non solo giudiziaria. Per esempio, la non recente “querelle” fra von Platen e Heine, una delle più famose dell’800 letterario germanico, ha avuto nella letteratura critica del secolo scorso una diffusa recezione in Karl Kraus, in Thomas Mann, nonché in Marcel Reich-Ranicki; senza contare il valore politico che Hans Mayer e il nostro Giuseppe Farese che vollero interpretare la polemica in senso prettamente politico. Parlare di un “caso” Heinrich von Kleist sarebbe però riduttivo, anche per i limiti di spazio concessoci. Solo che ci pare opportuno segnalare brevemente un aspetto del poeta, quello del suo ideale politico. Orbene, il lettore del classico manuale di storia dalle letteratura tedesca di Ladislao Mittner (a pag. 866, parte II, tomo terzo, note 9 e 10), stimola il dubbio che qui si tenta di dissipare. Recita il manuale – la cui prima edizione è del 1964 – nella parte dedicata al poeta\soldato Karl Körner – che “fra le poesie che incitano alla riscossa primeggia il brutale inno “Germania an ihre Kinder…”Kleist qui predica lo sterminio dell’invasore non solo per giusta vendetta, ma anche perché la storia giustifica (hegelianeamente) se stessa” verso tradotto dal Mittner in modo che ci pare più che brutale: “Ammazzatelo. Il tribunale del mondo non ve ne chiederà i motivi (Schlag ihn tot!) Das Weltgericht fragt Euch nach den Gründe nicht!“
Ma di chi sono questi versi veramente? Come mai Mittner li attribuisce a Kleist nel paragrafo dedicato a Körner?
Di più: la feroce invettiva a chi è diretta, al popolo francese invasore, o a Napoleone, considerato che brillava il singolare e non il plurale del verso? E infine, il tribunale del mondo – o della storia, come dice oggi Paolo Mieli – veramente può accettare un tale verdetto? Come non catalogare questo strano autore nella categoria dei violenti come un Paul Celan? Per tentare di rispondere a questa piccola contraddizione critica, tanto più che un’altra breve analisi del personaggio, apparsa su Spiegel Geschichte,n. 1 del 2021, a firma di Johannes Saltzwedel (a pag. 141) assegna la paternità del verso proprio al giovane Karl Körner. E quindi, quale era il rapporto fra i due, chiaramente mossi dallo stesso spirito rivoluzionario, libertario e unitario, figli della stessa Patria, all’epoca invasa dallo straniero francese.
Inquadriamo il contesto storico
Kleist ai primi dell’800 giunse a Dresda, nuova capitale culturale della Germania, un’ altra “espressione geografica” a dire del Metternich pari all’”Italia” di Alfieri e di Foscolo. Proveniva da un semestre passato in carcere perché condannato come spia prussiana. Era un profugo in quel settembre del 1807 a quasi due anni dalla pace di Presburgo (oggi Bratislava), dove l’imperatore d’Austria Francesco I e Napoleone conclusero la guerra della terza coalizione. Napoleone ottenne non solo la fine del Sacro Romano Impero, ma anche il riconoscimento del nuovi regni di Baviera e del Regno di Württemberg – che gli garantirono la riva destra del Reno – il granducato del Baden, regno satellite, nonché la Confederazione del Reno, una federazione di piccoli staterelli di cui la Francia era il “protettore imperiale”. Rimaneva ancora la Prussia di Federico Guglielmo III, che rimaneva tra l’incudine russa del nuovo zar Paolo I e il martello sempre più invadente francese.
Körner, invece, appena quindicenne vide quel signore un po’ strano e dallo sguardo obliquo che frequentava le lezioni di Adam Müller, un romantico protestante che ad ambedue insegnò i principi illuministi di libertà e fratellanza, già conosciuti da entrambi, ma interiorizzati da Heinrich con metafore sgorganti e lampi di luce in un mondo grigio qual era la Prussia contadina dell’epoca, alle quali si era ispirato nell’operetta Käthchen di Heilbronn, fin dalle carceri di Chalon sur Marine. E poi “La marchesa von O. e il Michael Kohlhaas, racconti dove la presenza di un destino immutabile veniva rovesciata da una morale irrazionale che privilegiava il sogno e la poesia fino a divenire un atto di fede. La speranza di tale rovesciamento di valori, della rottura di quella gabbia storica che Napoleone rappresentava, è la letteratura fantastica, un ritorno alle origini arcaiche – per es. nella tragedia Pentesilea – dove ritrovare quel fuoco sacro dionisiaco che lo riportava all’uomo più vero. Non è un caso che Nietzsche alla fine dell’800 lo riesumasse come esempio di Superuomo. Il prof. Müller ed il consigliere di Stato Christian Gottfried Körner – il padre del giovane Karl – capirono l’assoluta novità del suo pensiero, bizzarro per quanto fosse, assolutamente in linea con le scuole romantiche di Heidelberg a Berlino, fra Brentano, Tieck e Von Arnim. Occorreva rifondare la scuola classica di Weimar, risalendo all’altro “dioscuro” Schiller, di cui già Karl era un fervente lettore. E occorreva una rivista analoga alla “Horen” di Goethe, per rinsaldare i legami fra le generazioni passate e recuperare lingue, valori e religione di “un popolo che ancora non aveva un volto”, come disse Manzoni nel suo “Adelchi” per l’Italia. E fu il Phoebus, foglio romantico che Müller e Kleist diedero alle stampe all’inizio del 1808. Qui, le predette opere di Kleist apparvero con il beneplacito da Berlino dei Fratelli Schlegel e del salotto letterario di Bettina von Arnim e di Rahel Vernaghen, centro propulsore della cultura rivoluzionaria della “giovane Germania” fra il 1830 e il 1848. Ma il suo avanguardismo letterario trovò nel coevo poeta Novalis un inaspettato fautore, perché il famoso racconto La marchesa di O. apparve a quest’ultimo per niente scandaloso, non trovando nulla di male che una vedova, rimasta inconsapevolmente incinta, cercasse il padre del proprio figlio facendo un annuncio pubblicitario sul giornale, fatto che fece fortemente discutere l’opinione pubblica dell’epoca. Novalis fu l’unico a giustificare la legittimità del diritto di una madre a dare un genitore legale in quella società conservatrice. Così Kleist gli pubblicò come ringraziamento la nota ode zur Weinlese, cioè una lode sulla vendemmia, rivoluzionaria metafora sulla guerra come “lavande della storia”, secondo il famosissimo verso di D’Annunzio alle soglie della Grande Guerra. Era l’estate del 1808 e all’invito rivolto a Goethe di scrivere anche lui sul Phoebus, il Vate di Weimar non solo rifiutò sdegnato, ma anzi giudicò “avventata e stupefacentemente incomprensibile”, La Pentesilea, pareggiando con quel giudizio inappellabile e un po’ conservatore le critiche quasi coeve a von Platen.
Nel frattempo la situazione politica era in movimento: mentre la società civile continuava a mobilitarsi per la rivoluzione nazionale e lo stesso padre di Körner premeva sul governo von Stein per convincere Federico Guglielmo a ricacciare Napoleone di là del Reno senza temere alle spalle la Russia; fu proprio la spedizione di Napoleone in quelle terre a rompere gli indugi.
E qui le strade fra il Körner e il Kleist si divisero
Karl decise di andare a combattere e a farsi uccidere per la libertà della patria; Heinrich raggiungerà Vienna, passando per Aspern partecipando ad, una delle più cruente battaglie della sesta coalizione (29.4.1809). La visione dei cadaveri che giacevano ancora per le strade e l’acre odore di polveri da sparo lo tormentavano e gli fecero da base per la stupenda ode sulla “Germania” da cui partimmo e che nel 1809 uscirà nella librerie viennesi accanto alle brocche da birra su cui comparirà fra non molto l’effige del compagno Körner, morto nel 1813 a pochi chilometri da Lipsia.
Lo stato di depressione psichica di Kleist era ormai allo stremo: la condotta ondivaga della Prussia, il timore che al “Gallo” francese si sostituisse all’”Orso” russo, la sconfitta di Wagram degli austriaci il 6 luglio del 1809 e il relativo armistizio; gli fecero passare ogni velleità politica militarista. L’iniziativa romantica lo disilluse e non accettò più il rigido nazionalismo prussiano, perdendo ogni contatto con il povero Carl andato al macello al suono dei tamburi di guerra. Un’altra via gli appariva da proseguire, forse in linea con l’animo alternativo dell’essere che da tempo lo invasava. Una nuova lettura del quotidiano gli faceva ritornare nostalgicamente il ritorno all’età degli eroi sconfitti. Ecco allora la fanatica espressione che ci impressionò, che gridava alla morte violenta di Napoleone, ma non della Francia!
Al tribunale della storia toccherà quindi la funzione di risarcire la loro morte, mentre oniricamente giustificherà le stragi compiute sul suolo patrio. Il tutto in un delirio linguistico e di gesti inusitati nel teatro classico di Goethe e Lessing. Ci pare allora che occorre rileggere con tale spirito, Il Principe di Homburg, un capolavoro del teatro universale dove la nostalgia del passato classico e la tragica morte suicida rivelano una coscienza libera dai vincoli della ragione, per approdare infine al porto dell’innocenza e della pura felicità. Il caso Heinrich von Kleist di cui dicevamo, al di là della ferocia del verso, al di là della sua appartenenza – forse in buona fede consegnate dal padre di Körner all’amico Heinrich affinché l’inno “Germania“ mantenesse una valida memoria del povero poeta soldato – ci consente di perdonare e di cogliere un sentimento umano che “Il lupo della steppa Kleist” ha avuto il coraggio di urlare al mondo, giustificando le disarmonie del reale attraverso la veglia irrazionale e il sonnambulismo cosciente dei suoi protagonisti, come il “Principe” o “Michael Kohlaas” furono eroi che tanto somigliano al signor K. di Kafka e al Sisifo di Camus.