„La bellezza è la sola qualità che ci rende uomini fin dalla nascita. Un corpo, un gesto e un colore che ci inebriano sono l’unico incentivo consentito all’uomo per creare l’opera d’arte e congiungersi a Dio.“ È un pensiero di D’Annunzio? No, di Zeffirelli. Anche lui era uso inebriarsi del Bello con la B maiuscola, tanto che il suo maestro, il grande regista Luchino Visconti da cui aveva imparato il mestiere, lo chiamava „il mio arredatore“.
Zeffirelli era allergico al cinema che si occupasse di problemi d’attualità: film che hanno fatto la grandezza della cultura italiana, come „Rocco e i suoi fratelli“, „Mamma Roma“ , „Ladri di biciclette“ o „Le mani sulla città“, queste palesi brutture non erano cosa per lui. Ciò malgrado non fu alieno dal prendere posizione in pubblico. Già nei lontani anni ‘80 pretendeva che ai giovanotti fosse proibito andare in giro per Firenze indossando i pantaloni corti. Poi, nel 1993 si pronunciò pubblicamente per la reintroduzione della pena di morte: da riservare alle donne che abortiscono. Schierato a fronte aperta con Berlusconi, dal 1994 al 2001 sedette per lui come senatore a Palazzo Madama. L’unica volta che si occupò artisticamente d’un problema attuale, fu in occasione dell’alluvione che colpì Firenze nel 1966. Sinceramente commosso da questa tragedia, girò un documentario intitolato „Per Firenze“ in cui con la voce del suo attore preferito Richard Burton riuscì a raccogliere ben 20 milioni di dollari per il restauro dei monumenti cittadini.
Peraltro i film di Zeffirelli non si possono ascrivere al cinema italiano in senso stretto; i suoi cast non sono italiani ma prevalentemente inglesi o anglo-americani e sono poi stati doppiati in italiano. Gli attori italiani, se ci sono, hanno solo ruoli secondari come Claudia Cardinale come adultera nel „Gesù di Nazareth“ o Esmeralda Ruspoli come Lady Montecchi in „Romeo e Giulietta“. L’unico suo film ambientato in un’Italia storicamente vicina è „Un tè con Mussolini“ del 1999, le cui protagoniste sono però delle amabili zitelle inglesi. La sua produzione cinematografica si può -grosso modo-ridurre a tre filoni principali: Shakespeare, l’opera lirica e la religione.
Il suo primo grande film appare nel 1967: „La bisbetica domata“, tratta dall’omonima commedia di Shakespeare con due superstar come Liz Taylor e Richard Burton quali protagonisti e con un sontuosi e un po’ sovraccarichi scenari e costumi ispirati ai quadri rinascimentali di Lorenzo Lotto. Era un adattamento molto rispettoso dell’originale, peraltro, fatto da un esperto di Shakespeare quale Zeffirelli era, e che ebbe molti riconoscimenti meritati. L’anno successivo segue un „Romeo e Giulietta“ altrettanto accurato, con due attori minorenni come protagonisti, ed anche questa con due candidature all’Oscar. Solo nel 1990 completerà degnamente la sua trilogia shakespiriana con un „Amleto“ con Mel Gibson e Glenn Close. Nel 2004 la Regina Elisabetta lo premierà per questo suo impegno con il titolo di Cavaliere dell’Impero Britannico. Un Oscar, invece, non lo riceverà mai.
Nel frattempo Zeffirelli ha scoperto un nuovo tema per la celluloide: la sua fede cattolica. Il suo primo film di argomento religioso „Fratello Sole, sorella Luna“, un oleografico omaggio a San Francesco d’Assisi girato in parte sui luoghi originali, esce nel 1972, proprio lo stesso anno di „Ultimo tango a Parigi“, e mentre imperversano i conturbanti film di Fassbinder. Due attori britannici (Graham Faulkner e Judi Bowker) interpretano rispettivamante San Francesco e Santa Chiara, mentre Sir Alec Guinness ha il ruolo di papa Innocenzo III. Qui passa in un salto all’estremo opposto: alla povertà più scarna dal lusso più decadente. I primi seguaci franceascani assomigliano un po’ ai capelloni hippyes che andavano in voga allora, ed anzi sembra che Zeffirelli avesse tentato di scritturare perfino i Beatles. Ci si può immaginare l’accoglienza della critica: sulle pagine dell’Espresso, Alberto Moravia intitola la sua critica settimanale a questo film di Zeffirelli per scrivere che la miglior cosa che poteva dirne, era di parlare d’altro; e si mette a parlare di tante altre cose.
Imperterrito, Zeffirelli si mette sotto girando nel 1977 il supekolossal su „Gesù di Nazareth“ che, quanto a impegno scenico, cast pluristellato e con oltre 6 ore di durata rappresenta a tutt’oggi la più grandiosa produzione su questo tema. Trasmesso come serie televisiva, vince due nastri d’argento. E naturalmente si guadagna la benevolenza del Vaticano. In quegli anni a Zeffirelli è affidata la regia televisiva di tutte (o quasi tutte) le cerimonie ufficiali pontificali trasmesse dalla RAI-TV. Nel frattempo, gli stessi fondali rimasti liberi sul set vengono utilizzati dai Monty Pythons per girare il loro „Brian di Nazareth“ (1979).
Il terzo filone è il teatro lirico, che forse è anche il suo più grande amore: „Ho sempre pensato che l’opera sia un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti“. Per tutta la lunga durata della sua vita Zeffirelli ha lavorato con grande successo per i maggiori teatri lirici del mondo: per la Scala, per il Metropolitan di New York, per l’Opéra di Parigi, per la Royal Opera House Londra, per la Staatsoper di Vienna, e per innumerevoli altri. Ed ha lavorato con tutti i massimi nomi del bel canto: da Giulietta Simionato a Mirella Freni, da Giuseppe di Stefano a Placido Domingo, a Luciano Pavarotti, e con direttori d’orchestra come Herbert von Karajan e Leonard Bernstein. Questi sono solo pochi nomi: ma il più grande di tutti, che lo ha segnato più profondamente è stato quello della Callas. Con il grandioso soprano ebbe un rapporto personale abbastanza stretto, fino al punto di dedicarle il suo ultimo film: „Callas forever“ uscito nel 2002, ma che purtoppo non ha fatto un grande giro. Zeffirelli ha girato le versioni cinematografiche accuratissime di diverse opere come „La Traviata“ e „Otello“ di Verdi, „I pagliacci“ di Leoncavallo e la „Cavalleria Rusticana“ di Mascagni. Mentre il suo maestro Visconti prediligeva Wagner, il suo repertorio preferito consisteva in Verdi e Puccini, di cui era assoluto padrone. Meno a suo agio si sentiva nel repertorio mozartiano, soprattutto il „Don Giovanni“ gli sfuggì sempre. Benché proclamasse Firenze come la sua città, preferiva vivere nella sua villa di Positano ed in quella sulla Via Appia Antica a Roma, dove è morto alla patriarcale età di 96 anni, continando fino all’ultimo a lavorare per i teatri d’opera. Ed anche le sue esequie pubbliche hanno doverosamente assunto un tono sontuoso e un po’ oleografico. Nel centro di Firenze c’è la Piazza San Firenze. Su di essa s’affaccia un imponente e pomposo palazzo che è stato prescelto come sede della Fondazione Franco Zeffirelli onlus (presidente onorario: Gianni Letta). Chi vi s’imbatte potrebbe venire indotto a pensare che il Nostro sia stato il più grande fiorentino di tutti i tempi.