Il balbismo è una corrente della pittura contemporanea che trascende il concetto di arte come oggetto o prodotto artistico e lo sublima in un’esperienza artistica. E poiché di corrente si tratta, bisogna saperne seguire i flussi e gli zampilli, lasciandosi trasportare dal fluire di una narrazione fatta di immagini e colori. È così che, cullati da parole mai pronunciate ad alta voce, seppur articolate in una grammatica geometrica a tre dimensioni, le tele del maestro di Roccagloriosa sono un invito al viaggio, all’avventura esplorativa dentro e fuori noi stessi.
Nelle stanze che ospitano un Balbi, limitate dai rettangoli di legno e cotone, si schiudono finestre mentali capaci di aprire profondi solchi dentro alle pareti, tanto grandi da permettere all’osservatore di scavalcare il recinto del quadro per muoversi all’interno della tela stessa.
Per raccontarvi la serie de I Pesci abbiamo immaginato un viaggio insieme a voi, una trasferta dentro a un universo acquatico dove più che creature sub marine incontreremo animali del tutto simili a noi. Si tratta di pesci, i cui corpi raccontano in maniera diversa i nostri pregi e difetti atavici.
Immaginiamo di essere tutti in viaggio con il maestro Balbi. Siamo seduti in auto insieme a lui, passaporti alla mano, e ci apprestiamo a superare il controllo doganale tra due paesi. Il confine è segnato da un fiume e sul ponte che lo attraversa ci sono i militari e i blocchi dei rispettivi paesi. È a questo punto che il maestro ferma l’automobile. Lo fa quando il motore è già nel paese di arrivo, mentre il serbatoio è rimasto in quello di partenza. Lo fa mentre il veicolo ha le ruote in due stati contemporaneamente. Poi si sporge dal finestrino, in quel preciso centimetro per cui passa l’invisibile linea di frontiera. E sulle acque scure e profonde, fra le alte scarpate che moltiplicano gli echi, si sente la voce del nostro compagno di viaggio che si rivolge ai pesci del fiume.
Chiede loro di avvicinarsi, come già fece il Saramago di Viaggio in Portogallo e li chiama a raccolta. Quelli della sponda di destra dove il fiume ha ancora un nome, e quelli della sponda di sinistra, dove quel nome cambia e si traduce nella lingua del paese in uso dove sfocerà. E ai pesci chiede se hanno anche loro passaporti e timbri per entrare e uscire, se anche le loro vite son oppresse dai bolli e dalla burocrazia.
Certo che no, pensa, loro vivono tutti in una grande fratellanza tra pesci. “Pesci che si mangiano l’un l’altro solo per i bisogni della fame e non per noia o per i capricci della patria”. A questi pesci, che respirano a piene branchie la loro vita finché non arrivano i pescatori, il maestro Antonio Balbi ha dedicato una ricca serie di tele.
Prima di parlar di pesci occorre trattar dell’elemento che tutti li avvolge e che ci è tanto famigliare da ricordarci di quell’età antica in cui tutti eravamo pesci e l’idea di poterci muovere sulla terra ferma era folle quanto quella di poter vivere dentro a un mondo di lava e fuoco.
Dobbiamo trattare dell’acqua perché noi lì nasciamo e nell’acqua sovente periamo. Il nostro corpo è una spugna che senza quel liquido semplicemente non vive. Una spugna che il tempo prosciuga e la morte definitivamente rinsecchisce, abbandonando una carcassa che il vento ridurrà a polvere.
Ma l’acqua ha anche una valenza esoterica e simbolica molto antica che non sfugge ai lavori del maestro Balbi. L’acqua era il liquido che impediva il ritorno dei defunti irrequieti e minacciosi, lo specchio che non riflettendo la loro immagine facilitava il loro riconoscimento. Come se una volta perduto il corpo e con esso la possibilità di rifletterne l’immagine, il morto fosse condannato a perdersi e annegare nell’acqua, finendo per smarrirsi dentro di essa.
Dentro a questo elemento, onnipresente dentro e fuori dalle cose, il maestro di Roccagloriosa colloca i suoi pesci, i naturali abitanti dei mondi sommersi che nelle sue tele si muovono in gruppi, da un capo all’altro dei suoi lavori, in una nemesi che spesso non si traduce in redenzione.
Sono molto umani questi pesci che il Balbi anima dentro alle sue tele. Lo sono perché di noi uomini hanno spesso difetti e paure, angosce e ambizioni. Lo sono perché solcano acque che metaforicamente ricordano le grande teche dove anche noi umani siamo costretti a vivere.
Ci sono i pesci che nuotano dentro ad acque dorate. Un flusso ordinato di esemplari che si muovono dentro a un liquido che pare oro, e sembra celebrare il mantenimento di quell’antica promessa di una terra di latte e miele. Ma la promessa è stata disattesa e quello non è oro, né miele. Il liquame rappresenta invece tutto l’inquinamento di cui siamo stati capaci. In primis quello ambientale, sempre ben alimentato dal riversamento senza sosta di veleni in ogni corso d’acqua, fin dentro alle viscere della terra. Ma rappresenta anche la patina d’oro che copre la miseria di una società che ha fatto del denaro il suo nuovo Dio. L’illusione e il crollo di una società che ha speso tutta la ricchezza del suo capitale per difendere il capitale stesso. Dentro a questo liquido dorato i pesci sono destinati a essere anche loro dorati, nel tentativo vano di celebrare con le loro vite ormai malate l’idea che il culto del capitalismo meritasse davvero il sacrificio delle loro esistenze.
La morte per questi pesci dorati ha la forma di un pescatore che li tiene tutti in una rete ancora dentro all’acqua. I pesci si muoveranno ancora in quel recinto e si sentiranno padroni delle loro scelte e delle loro vite, ma quando al pescatore sembrerà opportuno, alcuni di loro verranno tirati su e cesseranno così di vivere.
Ci sono poi altri pesci che portano gli occhiali. Non lo fanno per necessità, sott’acqua quelle lenti non servono a niente. Lo fanno per il “complesso dell’ignoranza” che tutti li consuma. In un’era in cui tra social e forum virtuali il confronto si fa serrato e con un pubblico vastissimo, sembrare ignoranti è considerato una catastrofe sociale. Da qui non solo un entusiasmo per l’istruzione nozionistica e per un atteggiamento il più possibile razionale. Ma il continuo sforzarsi a dare applicazione a quei precetti così faticosamente appresi, ignorando l’enorme distanza che passa tra teoria e prassi.
Ma una volta che si è cercato di avere “la migliore conoscenza del potenziale partner”, così come spiegato e raccomandato da ogni insigne sociologo, una volta che ci si è impegnati a contare fino a dieci prima di maledire qualcuno, come consigliato da ogni guru zen, una volta che si è posto in essere ogni cosa suggerita da chicchessia e il proposito ci è sfuggito ancora, allora non resta che sedersi dalla parte di quelli che danno lezioni di vita agli altri, senza concentrarsi più sui propri fallimenti.
Quegli occhiali non sono solo la frustrazione degli arrivisti, un accessorio messo sulla punta di un naso che nemmeno hanno, per farsi passare per intelligenti e preparati. Le lenti che dovrebbero proteggere e rendere più acuto lo scrutare il mondo di persone che dimostrano a loro stesse di esistere solo attraverso l’odio e una violenza culturale che non può che portarli a essere ancora più alienati.
Tutti questi pesci soffrono di un male che noi umani conosciamo bene: l’inadeguatezza del nostro essere alle domande e alle pulsioni che come uomini non possiamo evitare e nemmeno soddisfare. Il male di vivere che nessuna cultura libresca potrà mai guarire e per dircela tutta nemmeno alleviare.
Questo perché “una conoscenza perfetta è in sé impossibile e non può, di per sé, costituire la base dell’azione sociale e dei rapporti sociali. Detta al contrario, l’ignoranza è sia inevitabile sia un elemento intrinseco dell’organizzazione sociale in generale, sebbene ci siano differenze notevoli in termini di forme specifiche, di livelli e funzioni dell’ignoranza nelle organizzazioni sociali conosciute”.
Costoro indossano gli occhiali come i fantasmi i loro lenzuoli. Cercano di riempire un vuoto che è destinato a restare tale. “Essere un fantasma dev’essere questo: avere la certezza che la vita esiste, perché ce lo dicono i cinque sensi, e non poterla vedere” o nemmeno capire.
Ma la fauna acquatica inventata dal Balbi non è lì solo per rappresentare quel che in noi c’è di negativo. Ci sono anche i bellissimi pesci azzurri, quelli che hanno la forma e il colore che ti vengono in mente quando ti immagini “un pesce”. Sono quelli che gioiscono del vento che soffia e del colpo dell’onda. I pesci azzurri del maestro di Roccagloriosa allargano il petto al respiro e vivono consapevoli che, da qualche parte lì vicino, Confucio sta seduto sulle rive di quella loro casa di fiume, osservando i cadaveri delle antiche paure trasportati lontano dalla corrente.
Tutto scorre nelle tele, attraverso le trame di cotone inchiodate al legno, fino a dilatarsi nella magica profondità del 3d inventato dal Balbi. Ma questo scorrere non è un viaggio solo spaziale, è anche il tempo che fugge via e resta sordo, quando le urla disperate della vecchiaia cercano di farlo tornare a casa. La vita se ne va anche per loro, ma questi pesci azzurri non ne fanno un problema. Loro sono le divinità dell’acqua, lo spirito antico celebrato dai pellerossa. Loro sono le bolle d’aria, la cui forma è stata ridisegnata dalle correnti che, come fiumi dentro al fiume, hanno trasformato gli spiriti in pesci azzurri.
Antiche credenze descrivono il tempo con forma circolare. Per quelle genti tutto sembrava poter essere contenuto dentro a un cerchio. Un’immensa bolla di sapone che, leggera, si portava dentro quello che accadeva nella vita di ogni essere e, come un’ombra, gli rimbalzava accanto continuamente.
Questi pesci azzurri del maestro di Roccagloriosa sono quella memoria antica. Lì sott’acqua, dove le orme si perdono, dove le correnti cancellano le impronte, l’osservatore può cercare il suo pesce azzurro, può scegliere ed essere scelto da un banco di preziosi spiriti azzurri, perché essi possano trasformarsi nella sua memoria ancestrale.
L’ultima immagine che vedremo, allora, sarà quella di un uomo che cammina per una strada di città. Tutt’intorno a lui il branco quasi trasparente dei suoi pensieri. Prima che i fatti perdano forma e sostanza, prima che le cose lineari diventino curve cieche nella memoria, i pesci azzurri del Balbi saranno lì a fare ciò che facevano anche dentro alle tele: ricordarti che non hai un’anima; tu sei un’anima e hai un corpo.