Alla ricerca di un Platen inedito: l’uomo, il poeta, il viaggiatore
Esiste un August von Platen a noi ancora sconosciuto? Sicuramente sì. Come lo si può verificare, oggi dopo 189 anni dalla sua morte? Molto semplicemente dei suoi 30 quaderni – dalla fine dell’800 ridotti a volumi – in forma di diario, un insieme di ricordi di viaggi soprattutto in ogni parte d’Italia, finché com’è noto morirà a Siracusa il 5.12. del 1835, a 39 anni (era nato ad Ansbach in Baviera, il 24.10.1796).
Li chiamò Memorandum proprio per accentuare la loro natura personalissima anche se spesso si dilungava in descrizioni di persone e di luoghi oggi molto importanti perché fungono da prova essenziale per le condizioni storiche di quell’epoca, l’Europa appena placata dal turbine napoleonico, di cui egli fu partecipe come ufficiale e nobile bavarese dal 22.10.1813, data dalla quale appunto iniziano le sue memorie. Platen lo iniziò a 17 anni quando viveva ancora in famiglia e nel momento in cui una fortissima tempesta dell’animo – forse un preludio di un omoerotismo che lo perseguitò fino alla morte – lo spinse a scrivere per scaricarsi dalle prime tensioni predette. Infatti i primi scritti accantonano la vita quotidiana di sofferenza spirituale come ebbe a confessare da subito. Divenne ufficiale come tanti nobili contro l’invasione francese della Baviera (1815) e nella prima serie di rimembranze spiccano i suoi umori soggettivi fra vita militare, studi classici e prudori giovanili.
Scrive il 6.6.1816: Non sto bene, la mia penna scorre di più proprio per questo Diario, dove sempre è valutato l’uomo che sta soffrendo e che lotta con forza per rinascere poco a poco. Dunque, non è una cronologia astratta e fredda, ma una caldissima tensione interiore che deve orientare la critica degli studiosi del Platen dopo che nel 1900 vennero pubblicati i suoi diari. Proprio nel 1816 iniziò il suo primo viaggio destinazione Svizzera. Ma già nell’agosto, a rivedere i primi appunti, scoprì uno spirito nuovo, riordinò le sue annotazioni, ritrovando quindi il filo rosso fra gli avvenimenti vissuti e le impressioni con i compagni di caserma e prima a Corte. Vita da paggio alla Corte in Baviera (quaderno n. 1) e vita militare (2° e 3° quaderno) a Parigi (1814).
Nell’aprile del 1815 ritornò a Monaco e poi raggiunse la maggiore età sempre fra contrasti interiori e la società chiusa in cui viveva. Si accorse ben presto che l’onore della Casata strideva col suo cuore e le sue fantasie, anzi spesso prendeva fuoco la sua particolare indole e la penna gli bruciava in mano, divorandolo di un’infuocata passione fino all’esilio in Italia nel 1826. Chi legge qualche brano nota ora però un tono molto meno ardente e più pacato. Si guardi per esempio, la passeggiata romana del 24 ottobre dello stesso anno. Ben diversa era stata la vita da laureando a Würzburg, fra il il 5 aprile 1818 e l’ottobre del 1819 (libri XIX-XX), fino alla fuga dall’università suddetta alquanto conservatrice e l’approdo ad Erlangen dove, allievo di Schelling, ottenne il dottorato di specializzazione.
Già in altra sede (vd. il Corriere d’Italia del 7.12.2020) esaminammo le origini della sua maledetta natura, dove l’essere omeoerotico rifletteva l’ambivalenza di poeta classico come reazione all’ambiente sociale romantico. Questo gioco di specchi fra mondo e natura personale, lo porterà prima ad una serie di viaggi in Germania alla ricerca e conoscenza dei grandi tedeschi – Goethe, i Grimm ed il poeta Rückert, suo amico e poi a lui preferito a Monaco come docente, malgrado la sua inferiorità letteraria ma ben conforme alla political correct conservatrice – e del suo grande avversario, Heinrich Heine, a lui speculare per vita e pensiero, ma come lui esiliato dall’ambiente letterario perché ebreo, un diverso come lo era Platen stesso.
I Quaderni – che ormai sono diventati libri in quanto infarciti di uomini e luoghi visitati lungo l’asse renano, la Turingia, la Sassonia fino a Weimar e Lipsia – corrono dal 1820 al 1826, forse il momento più frenetico della sua vita, denso di poesie, la cui scrittura impressionò il Vate di Weimar per lo stile perfetto e per la rarità della rima, anche se il giudizio estetico globale, di essere molto perfezionista ma poco reale, di essere cioè un poeta di belle forme ma privo di amore. Sfuggì al Goethe il carattere proprio di Platen, giudizio che lasciò quest’ultimo un po’ interdetto se non già ormai isolato. I libri dal XXIII al XXVI lo vedono allontanarsi da Monaco per ritornarvi solo brevemente nel 1834 alla morte del padre e per sfuggirne al primo segnale di massima chiusura dell’ambiente universitario che lo rifiutò soprattutto per la lampante omosessualità che lo marchiava.
I libri finora redatti, le sue poesie, commedie e drammi e le conseguenze saranno ricordata dall’editore Hermann, custode segreto delle sua opere fino alla morte, anche se brochures di esse appariranno fin dal 1826 lungo il suo peregrinare in Italia. Quando nel libro nr. 25 affermò di essere riuscito finalmente a far rappresentare da dilettanti la sua commedia in 5 atti, Il tesoro di Rhampsinit,
Platen ha ormai fatto terra bruciata anche ad Erlangen. L’operetta fu inviata a Goethe e Jean Paul, altro Vate della nuova letteratura neoclassica di ispirazione cristiana ed insigne pedagogista. Platen non ottenne alcuna risposta che convalidasse le simpatie espressogli personalmente. Intanto i vecchi amici – Liebig, Gries, Fugger – stranamente cominciarono ad evitarlo e non scrivergli più, mentre la rigidità della famiglia ora era al culmine. Il segnale più tangibile delle difficoltà di relazione con il vecchio mondo appare al lettore quando Platen iniziò a scrivere il diario in italiano ed in francese, inframmezzando qualche parola in spagnolo, come se volesse nascondere le sue passioni, come era avvenuto a Würzburg col baroncino Schmidlhein, che sollevò uno scandalo tale da metterlo in fuga per evitare effetti sulla sua integrità non solo morale.
Un’idea gliela fornì il maestro Schelling: perché non andare in viaggio a Venezia, scelta che perfino Goethe aveva adottato nella maturità espatriando da Weimar? Dopo il fallimento dell’altra pièce esposta ad Erlangen – Fedeltà per fedeltà – chiaramente ispirate dalle sue tensioni omofile, il dado è tratto. Gli anni ad Erlangen lo hanno formato nelle amicizie e negli studi classici, ma anche nel rigetto della corrente romantica e lo hanno amareggiato perché Rückert, Heine, Schlegel e compagnia poetando, godono di maggiore rispetto sociale rispetto alla sua natura irriferibile. Era ora di cambiare aria.
Il 24 agosto 1824 sbarcò a Venezia e poi per altri 9 mesi sarà in giro per il Triveneto. Qui un ulteriore salto di qualità: I successivi anni, dal 1826 al 1835, lo vediamo letteralmente vagabondare – il futuro flaneur di Baudelaire e Benjamin – per le principali città del Nord Italia e soprattutto per Venezia, Firenze e Roma (libri XVIII-XXX) alla ricerca del tempo perduto, cioè di se stesso, di quella pace interiore che la libertà ora gli concede, rispetto alle dipendenze dei costumi sociali che ne avevano minato l’animo.
Il diario ne risente: accanto alla rinnovata vita sentimentale, dove quasi sempre l’amore – più platonico che carnale manifestato – non aveva alcun riscontro, cosa che rifletteva un periodare fantastico, melanconico e fortemente speranzoso. In Italia gli ritroviamo un linguaggio più schietto, più posato e più tranquillo per qualche segnale di maggiore corrispondenza.
A Napoli, per esempio, Platen trovò in August Kopisch – un pittore boemo che lo ricambiò finalmente, a leggere almeno il ritratto che il Bavarese ne fa nella speranzosa pagina del Diario del luglio del 1827 (11 luglio – 24 ottobre) fra Capri e Sorrento. Ecco il doppio binario del Diario, fra amori e dissapori, fra arte e conoscenze occasionali, prima fra tutte quelle con Leopardi, e Ranieri e Poerio, dove traspare anche qualche simpatia liberale, notoriamente sviluppata nelle poesie polacche che Platen recita all’amico Fugger venuto a trovarlo a Napoli, forse sul mandato della madre preoccupata per le notizie di quel figlio degenerato, ma non dimenticato. Già, il diario, la cui ultima annotazione reca la data del 13.11.1835, scritta a Siracusa poco più di 2 settimane dalla morte, le cui modalità ci pervengono dalle ultime lettere spedite in Baviera e da dichiarazioni un pò fallaci dei testimoni della sua morte, primo fra tutti, il Barone Mario Landolina-Nava che lo accolse dietro la raccomandazione del comune amico Herinrich Schulz, uno storico dell’arte conosciuto a Roma, sicuramente un inviato della famiglia che poi dopo la morte seguirà un ferreo ordine della madre per la sepoltura del corpo nella stessa villa del Barone, ma anche di raccogliere i fogli di diario e di farli rispedire in uno scrigno a lei stessa, come obbedì Landolina ed il medico locale ne certificò il decesso senza tanti particolari.
Collaborarono alla occultazione dei suoi diari sia lo Schelling che il grande amico Fugger, che fin dai tempi di Würzburg ed Erlangen vigilavano sulla figura sociale del poeta, fino ad interpretare, o meglio a nascondere le avventure sentimentali del Nostro flaneur a Roma, a Napoli e forse anche a Siracusa. I diari – o meglio l’autobiografia – vennero pubblicati soltanto nel 1896 e da allora è nata la questione morale di von Platen che incise sensibilmente sul valore della sua poetica.
E’ noto che il marchio omoerotico inficiò la sua critica, stante le ripetute confessioni del Poeta proprio in tale sede. In Italia poi le poesie, tradotte dal Carducci, o meglio da questi rimaneggiate, hanno aggravato la ricostruzione del suo patrimonio artistico. Forse una traduzione integrale dei Diari, magari arricchita dell’intimo carteggio con gli amici in Germania, sarebbe una opportuna riapertura delle discussioni sulla sua tormentata esistenza.