Presentazione del Rapporto italiani nel mondo a Dortmund e Colonia. Come è cambiata l’emigrazione dagli anni Novanta
L’articolo che segue è estratto da un volume monografico “La giovane Italia” della rivista Il Mulino (4/23) sulla realtà giovanile in Italia. L’autrice, Edith Pichler, insegna al Centre for Citizenship, Social Pluralism and Religious Diversity dell’Università di Potsdam. È originaria di Cles (Trento). Si occupa ed ha svolto diverse ricerche su emigrazioni, etnicità, minoranze pubblicando numerosi saggi sulla presenza italiana in Germania. È membro del Rat für Migration, come esperta della Associazione Neodemos sugli studi demografici e politiche sociali. Fa parte del Comitato Scientifico del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes e collabora con il CSER- Roma e con il Centro Altreitalie di Torino. Edith Pichler, insieme a Delfina Licata (curatrice del rapporto RIM) e al delegato don Gregorio Milone, presenteranno il Rapporto italiani nel mondo. Si tratta di due incontri, Dortmund e Colonia, organizzati dai Comites locali. (CdI)
Dopo una politica migratoria di reclutamento di manodopera che si è protratta fino alla metà degli anni ’70 e che ha visto un periodo di stagnazione negli anni ’80, a partire dagli anni Novanta si può osservare una ripresa dell’emigrazione italiana, di giovani con certo livello di istruzione, «girovaghi» potremmo dire che si fanno promotori di attività e proposte economiche, culturali e associative dai tratti innovativi nei Paesi di permanenza. Fra di essi si nota anche un lieve aumento della presenza femminile. Si è trattato di una «nuova mobilità europea» favorita dal processo di integrazione anche attraverso i diversi progetti come il Progetto Erasmus. Per le migrazioni successive, avvenute negli anni Duemila, si può parlare di una nuova forma di mobilità di giovani che si spostavano nelle metropoli europee come Londra, Barcellona e Berlino, città che negli ultimi dieci anni hanno visto aumentare sensibilmente il numero ufficiale della popolazione italiana. Fattori soggettivi e un «habitus europeo» erano perciò, e lo sono ancora in parte, alla base di questa mobilità italiana in Europa. Ma con la «grande recessione» del 2008, invece, è iniziato un nuovo periodo di migrazioni interne europee dettate dalla necessità e dal bisogno. Tanti giovani e meno giovani, così come interi nuclei familiari, provenienti da Grecia, Spagna, Italia e da altri Paesi europei, hanno ripreso a emigrare in un contesto non solo europeo, ma anche extraeuropeo. Fra i nuovi migranti non ci sono solo giovani, single e laureati, ma anche tante persone con un diploma di scuola secondaria e gruppi familiari alla ricerca della possibilità di una vita dignitosa. Anche in questo secondo caso si osserva un aumento della presenza femminile. Con una significativa differenza rispetto al passato: per questa generazione di donne l’emigrazione rappresenta un progetto proprio, mentre in precedenza avveniva prevalentemente nell’ambito del ricongiungimento familiare (cfr. Ieri, oggi, domani. I lavoratori italiani in Germania, «il Mulino», n. 4/2020).
Con la crisi finanziaria ed economica del 2008 è iniziata quindi una nuova fase di migrazione da condizioni di necessità e bisogno. Fra il 2012 e 2021 sono circa 337 mila i giovani fra i 25 e i 34 anni espatriati, di cui oltre 120 mila laureati (Istat). Il Covid ha rallentato l’esodo ma a partire dal 2022 si assiste a una ripresa delle emigrazioni verso l’Europa. A differenza del passato, quando la manodopera non necessitava di possedere specifiche qualifiche, le economie europee oggi hanno bisogno sia di tecnici nelle professioni innovative Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), sia di manodopera da impiegare nei segmenti bassi del settore dei servizi, come per esempio nell’assistenza agli anziani, nell’infermieristica, nel settore assistenziale, nella logistica, nei call center, nel ramo delle pulizie ecc. In questo secondo caso, spesso si tratta di forme di sottoimpiego rispetto ai livelli di istruzione posseduti perché tanti possiedono una qualifica o un diploma. I giovani espatriati italiani vengono così in molti casi occupati in questi settori, dove non è richiesta alcuna qualifica. Suppliscono alla richiesta di manodopera che non viene coperta (e spesso evitata) dalla popolazione locale e questa funzione li accomuna al ruolo svolto in passato dai migranti del lavoro. Se però gli immigrati della prima generazione erano inclusi nel sistema di Welfare, ben diversa era ed è la situazione dei «nuovi immigrati». Si assiste dunque alla formazione di un nuovo proletariato dei servizi, esclusi dai diritti di cittadinanza sociale a causa di una debole rappresentanza sindacale. Anche questi nuovi migranti europei sembrano assumere la stessa funzione di cuscinetto svolta in passato dalla manodopera straniera in Europa, poiché in caso di crisi, è più facile da licenziarli.
Fra le creative industries le start up non li vedono protagonisti. I «nuovi mobili» non sempre sono attori delle start up, piuttosto subiscono un sistema dove dietro il concetto di autorealizzazione si celano nella realtà una forte flessibilità, rapporti e condizioni di lavoro di «autosfruttamento» a scapito delle tutele. Questo vale anche per altri settori: un esempio sono i diversi «fattorini» di Foodora e piattaforme simili, che hanno contratti a cottimo o sono impiegati come lavoratori parasubordinati. La gastronomia è poi per i giovani «creativi» italiani un settore complementare, un secondo impiego per sopravvivere, e questo vale non solo per Londra, Berlino e Parigi, ma anche per le zone turistiche della Spagna. Anche in questi settori sono spesso presenti forme di lavoro grigie se non in nero, diffuse non solo nella gastronomia italiana, che vanno inquadrate nel contesto più ampio della deregolazione dei rapporti di lavoro avvenuta negli ultimi decenni. Quindi, nonostante i titoli di studio e l’elevato capitale culturale, i rapporti di lavoro dei nuovi migranti indicano una certa precarietà delle loro condizioni di vita e alcuni di loro, attivi nelle creative industries, possono essere definiti «precari creativi».
Ma come si autorappresentano questi migranti del lavoro o nuovi mobili che vengono descritti come esempi della nuova mobilità, soprattutto nelle leggende mediatiche? Tanti di loro non si ritengono degli «sfruttati» del capitalismo finanziario e neppure si sentono legati ai sindacati, perché ai loro occhi questi ultimi rappresentano il vecchio mondo dell’economia. Le rappresentazioni sociali fornite dai mass media sono però spesso fuorvianti. Si usano di frequente termini come «fuga di cervelli» o «expat» per descrivere questo fenomeno, quando i laureati rappresentano circa un terzo del totale. Ad esempio, nella trasmissione Expat di Radio Tre vengono presentate biografie di successo e affermazione all’estero, come se esse rappresentassero la granparte dell’emigrazione italiana. Nei diver trovano invece pochissimo spazio le storie dei tanti ragazzi e ragazze costretti a lavorare con bassi salari nonostante le loro elevate qualifiche. Ciò vuol dire che una parte significativa delle migrazioni italiane degli ultimi anni sembra non avere visibilità nei media e nei discorsi della società civile. Si tende invece a presentare una migrazione qualificata, come se l’Italia avesse mandato all’estero, a differenza del passato, solo «cervelli», senza pensare che anche questi verranno spesso impiegati come «braccia». Questo anche perché la classe politica non desidera dar credito all’accostamento tra Italia «povera» e nuove migrazioni: l’Italia non manda più braccia come in passato, manda cervelli nel mondo.
In tutta questa discussione su giovani italiani all’estero va considerata la presenza di una seconda e terza generazione di italiani cresciuti in diversi Paesi europei. La seconda e terza generazione – a differenza della prima confrontata a volte con forme di rifiuto e pregiudizi – vive anche una sorta di «inclusione simbolica», una forma di legittimazione e riconoscimento sociale a volte stereotipata (si pensi a: la Dolce vita, italian life style, la moda e la cucina italiana ecc.), imprimendo e perpetuando una certa italianità che vive nell’immaginario e può lasciare poco spazio a forme di identità ormai ibride. Inoltre i discendenti dei migranti del lavoro in Europa, nel frattempo, sono arrivati a rivestire posizioni professionali di rilievo: sono giornalisti, politici, dirigenti di aziende, accademici, artisti e letterati. Il fatto di crescere in un ambiente caratterizzato da diverse culture, così come la circolazione delle informazioni, ha portato a nuovi orientamenti e a un mélange «transculturale»: si è, piuttosto, italo-Deutsche o Deutsch-Italiener/innen in un contesto europeo. Una persona con madre spagnola e padre italiano che, rispondendo a una mia domanda sulla sua identità, disse: «Io sono cresciuto appropriandomi del meglio delle tre culture: se si tratta del calcio sono totalmente italiano, se si tratta della passione sono totalmente spagnolo, ma se si tratta di ordine e disciplina sono assolutamente tedesco. Sono volentieri tutti e tre»*.
*(E. Pichler, Junge Italiener zwischen Inklusion und Exklusion. Eine Fallstudie, Ebner & Spie gel, 2010.