Quando la cronaca si fa storia
Dai tempi di Erodoto e Tucidide la critica storica distingue la narrazione giornalistica degli eventi, fondata spesso sulla memorialistica di fatti avvenuti di presenza quasi fotografando l’evento, mentre lo storico li spiega fornendo le ragioni e collegando il passato al presente, fedele al principio ciceroniano che definisce la storia maestra di vita. A volte però fare memoria e scrivere di storia è un fenomeno inscindibile e a tale coincidenza non vennero meno, quasi nello stesso periodo, Emilio Lussu e Ernst Jünger. Erano gli anni di inizio secolo: Emilio di famiglia contadina benestante, formatosi all’interno della Sardegna, terra di valori assoluti come quella dei vecchi combattenti di tutte le guerre – lingua, famiglia, lavoro, partecipazione politica – fu socialista e repubblicano.
A Roma studiò al liceo classico Mamiani e poi a Cagliari si laureò in giurisprudenza obbedendo ai genitori in piena crisi di primo ‘900, ascoltando le lezioni di etica politica di Gaetano Salvemini. Non diede retta però alle prime violenze indipendentiste sarde, ma oppose forme di autonomia locale nel solco del pensiero laico di Antonio Labriola, senza trascurare l’analogo supporto del giovane Luigi Sturzo. Interventista convinto al fianco delle potenze occidentali democratiche, nazionalista deciso alla riconquista italiana di Trento e Trieste, diede alle stampe nel 1919 un libretto che ha fatto epoca da memorialista e storico ad un tempo. Un anno sull’altopiano, diario di un ufficiale della c.d. quarta guerra di indipendenza, fra il ‘16 e il ‘17, sui monti della ‘Asiago, testimone critico della più defatigante guerra di posizione: una serie di scontri in trincea, dove le forze contrapposte marciavano come il gambero con migliaia di morti ogni giorno.
Uno splendido libro di episodi della sua memoria indelebile, uscito in Francia nel 1937, un inno apparente alla guerra, ma di fatto un monito severissimo alla sua gestione se non finalizzata al compimento di equilibri politici che finalmente la evitassero, quasi un’analisi tacitiana del principio se vuoi la pace, prepara la guerra. Così pensava la maggior parte dell’opinione pubblica europea alle soglie delle invasioni naziste di Austria e Cecoslovacchia, che nel 1938 il Patto di Monaco aveva illuso di confermare, sperando anche nell’apporto calmieratore di Mussolini, che Lussu mai aveva approvato e che in un altro libello aveva un po’ sbeffeggiato – Marcia su Roma e dintorni – pamphlet che da un decennio gli aveva arrecato la condanna del Tribunale speciale e la conseguente fuga all’estero. E veniamo all’altro nostro protagonista. Ernst proveniva da una famiglia di tecnici borghesi. Da giovane, insieme al fratello Georg, futuro scrittore di romanzi d’amore, dovette cambiare più volte città per seguire il lavoro dl padre – chimico industriale – e i licei frequentati lo videro piuttosto svogliato, interessato all’entomologia e alla storia di avventure esotiche. Lesse con attenzione di esploratori e pirati, poesie d’amore e di rispetto per la natura. Poi a 18 anni, complice un amore impossibile, il colpo di fulmine per la legione straniera. Qui i due nostri eroi mostrano un comune senso dell’onore e dell’avventura .
Mentre Emilio cercava in Sardegna i valori della sua terra e movimentava le forze contadine a un maggiore interesse per la loro identità culturale; Ernst in Marocco combatterà in nome della classica cavalleria, da eroe per la lotta contro i barbari per la difesa dell’uomo, un po’ come Achille a Troia. Nietzsche aveva fatto strada e per tutte le sue opere successive resterà il faro della sua azione. E venne poi la guerra, dove fin dalle prime giornate aderì entusiasta, da allievo ufficiale e poi tenente. Come Emilio, il fronte occidentale fu la sua Patria, ricordando le tante battaglie e le 14 ferite in racconti e romanzi autobiografici, primo fra tutti Nella tempesta d’acciaio del 1920, dove la riflessione sulla guerra entusiasmò l’opinione pubblica conservatrice, influenzò Thomas Mann e Stephan George, in nome della guerra come Lavanda dei popoli, espressione ripresa dal nostro Gabriele D’Annunzio che Jünger tenne in grande considerazione. Il dopoguerra di Ernst fu molto diverso da quelle di Emilio: questi da deputato socialista si batté contro il Fascismo e considerò la guerra un male necessario per rinforzare l’unità nazionale, ma non un fine, quanto un mezzo per l’elevazione delle masse alla democrazia parlamentare e alla giustizia sociale. Ernst invece vedeva nella guerra una rivoluzione conservatrice dei costumi nazionali, tale da riportare nella realtà quotidiana le origini celtiche, dove il rispetto dell’avversario nasceva del combattimento corpo a corpo in un epica della battaglia che la Grande Guerra aveva modificato irreversibilmente.
Il breve racconto Il tenente Sturm del 1923, dove il protagonista muore in trincea per una bomba caduta dall’alto e proveniente chissà da chi e da dove, dimostrava la grande disillusione di ogni reduce di guerra, portandolo a rifiutare la guerra moderna e a ricordare la guerra dei classici antichi. Lussu piuttosto nel suo libro di memorie andò al di là di una mera cronaca per lanciare un messaggio storico che avrà come banco di prova proprio il secondo conflitto mondiale, che lo vide esule a Parigi come antifascista e patriota, proprio perché il suo obiettivo era quello di combinare la ripulsa della guerra e la morale del combattente coraggioso. Questa ci pare la giusta via della sua rilettura, riflettendo e misurando il contesto, come nella esaltazione dei giovani interventisti in buona fede, ovvero la rappresentazione degli errori di un ufficiale al comando, la figura di un generale pazzoide, la massa impaurita di soldati di tutte le regioni che decisero di disertare dopo la rotta di Caporetto dovuta all’incompetenza dei generali. E ancora: Lussu da abile storico sociale, evidenziò l’uso singolare che la classe dirigente fece dei poveri contadini meridionali ridotti a carne da macello, spesso arricchitasi per effetto degli appalti di guerra connessi al suo prolungarsi nelle terribili trincee.
Proprio negli anni fra il 1919 e il 1922, le classi lavoratrici capirono il messaggio e lo premiarono aderendo nella sua Sardegna al partito d’azione, il cui nucleo principale erano i pastori reduci di guerra. Masse contadine che rivendicavano pascoli e terre, contro gli agrari che non per caso favorirono il Fascismo anche attraverso il mito della vittoria mutilata. Costoro appropriarono del sano patriottismo e soffocarono le legittime rivendicazioni autonomiste. La marcia su Roma del 1922 riportò all’ordine sociale la speranze del Paese uscito distrutto dalla guerra, la cui rinascita si avrà nel secondo dopoguerra, con la Costituzione repubblicana, la Riforma Agraria e del Lavoro in uno Stato democratico che riconoscerà le esigenze delle Autonomie Locali. Nondimeno, anche Ernst seguì un percorso per molti versi simile al nostro Emilio. Quando nel 1918 Thomas Mann scriveva Le considerazioni di un impolitico, quasi alla fine del conflitto e in un paese ridotto alla fame, in Germania spirava un vento di nazionalismo mai diminuito come era avvenuto in Italia.
Il libro era fortemente antilluminista e fuori dalla storia, un inno nostalgico a Dürer, Bach, allo Sturm und Drang, a Novalis, a Wagner e Nietzsche. Jünger, fra tutti gli espressionisti che avevano versato il loro sangue in trincea da Verdun a Leopoli, era miracolosamente sopravvissuto e diventò il cantore della vittoria mancata per il tradimento politico, fustigatore di quei socialisti e cattolici troppo poco convinti dell’entrata in guerra, che a suo dire accoltellarono alle spalle il Reich imperiale senza una vera sconfitta militare. Malgrado gli attentati che funestarono i primi anni della Repubblica e perfino dopo il tentativo di colpo di stato di Hitler a Ludendorff nel 1923, crebbe la sua fama di scrittore europeo di ricerca del moderno con un occhio al passato.. Non disdegnò di praticare perfino la LSD, droga artificiale; e i suoi romanzi degli anni ‘20 e ‘30 – Boschetto 125 (1925); Il cuore avventuroso (1938) ma anche il saggio anticapitalista L’operaio del 1932, fino al confronto con Schmitt e Heidegger – dimostrarono la sua naturale estraneità e opposizione e al Nazismo, cosa che gli procurò una certa freddezza di Goebbels e d Rosenberg, ricambiata dalla sua simpatia per gli attentatori del Führer nel 1944. Soprattutto la sua fraterna amicizia con il conte von Stauffenberg, il più valoroso degli attentatori, lo portò ad un passo dalla fucilazione. Fu un viaggiatore proverbiale, specialmente per uscire dalla Germania caotica degli anni ‘30, dove la sua aulica solitudine lo rendeva un diverso, come Hermann Hesse.
Jünger venne pure in Sicilia, lasciandoci nel 1929 un ampio diario del suo peregrinare per Mondello, e poi del più tardo giro dell’Etna (1977). Nel secondo dopoguerra, il percorso intellettuale di Ernst prese vie diverse: attenuatasi la spinta emotiva cavalleresca e solitaria, la sua vecchia passione entomologica lo portò a scoprire nuove specie di insetti e lo studio per le religioni, lo riportarono nel reale e nel confronto sociale. Il suo battesimo cattolico avvenuto nel 1996, all’età di 101 anni dimostrava la conversione critica delle sue origini paganeggianti e guerrafondaie nel più nobile significato. Ma ciò che lo rese singolare fu sempre la concezione della guerra, intesa come luogo di sacrificio e obbedienza come per Emilio, benchè Ernst la consideri come volontà di potenza dell’essere umano.
In fondo, Emilio la valuta dalle trincee, mentre il tedesco la guarda dal bunker e combatte per combattere. La sua conversione cristiana sta in stretta somiglianza a quelle conversioni volute dai Gesuiti della Controriforma spagnola riguardo agli Ebrei e ai Mori. Emilio invece si dedicò alla storia della sua Regione e da deputato socialista risalì agli usi e costumi di quell’isola, accentuando la naturale non violenza dei suoi abitanti, giustificando la loro pratica dei rapimenti di persone come vendetta politica alle rapine della classe dirigente che la aveva depredato per tanti secoli.