Nella vita di una persona, specialmente se scrittrice e saggista, nonché esponente politica, nella specie una donna pacifista, c’è sempre un momento di svolta, tale da riorientare la fede pacifista degli anni a venire
Chi era Bertha von Suttner?
È questo il caso di Bertha von Suttner, autrice di romanzi, ma anche una politica geniale per aver abbracciato l’idea dalla non violenza. Non era più una giovanetta spaesata quando a 42 anni trovò l’uomo che più l’amò e la fede che più visse e patì. Fu una idealista che si distinse in un mondo ormai rivolto alla violenza legalizzata e impresse fino alla morte con il suo impegno quel “mondo di ieri”, per dirla con Zweig. Tanti la rimpiansero nel giugno del 1914, morta poco prima dello scoppio della Grande Guerra che Bertha aveva temuto fin dal 1870.
Il quadro storico
Quella era stata l’ultima guerra combattuta sul suolo europeo fra la Prussia e la Francia imperialista, che veramente aveva tentato di impedire l’ascesa al trono di Spagna di Leopoldo di Prussia, senza subire la reazione di Bismarck, superficialmente interpretando il veto francese come un ricatto alla Germania e provocando la dichiarazione di guerra. Un’Europa sgomenta osservò la rapida caduta di Napoleone III, la disfatta militare dell’esercito d’oltralpe che pochi anni prima aveva sbaragliato in Italia le armate di Francesco Giuseppe a favore dell’unità italiana. Prima a Solferino in questa occasione; poi a Metz e a Sedan, la morte di migliaia di soldati francesi e l’occupazione prussiana di Parigi, fino alle stragi fratricide della Comune (21 maggio 1871), eventi che causarono un movimento pacifista mai visto in Europa.
Il ruolo delle donne
Le donne ne furono la matrice, come nel caso di un’eroina di pace sul campo di battaglia di Solferino, l’inglese Nightingale, che fin dalla guerra di Crimea del 1853 – 1856, pose le basi, insieme allo svizzero Henry Dunant, della Croce Rossa Svizzera. Il percorso culturale e di vita di Bertha non fu facile fino al 1892, dove l’unità di vita rivoluzionaria e di fede pacifista, accompagnata da una levità ed incisività di scrittura, trovarono una conferma assoluta, tale da impressionare perfino Tolstoj e poi Zweig all’inizio del secolo successivo. Formatasi intellettualmente nella biblioteca paterna – il generale austriaco Franz Kinsky, aiutante di campo del maresciallo Radetsky – crebbe nella rigida società militarista dell’Imperial Regio Governo e peraltro predilesse i romantici progressisti di Vienna, fra Grillparzer e Bettina von Arnim. Alla morte del padre viaggiò in Italia, lesse Foscolo, Byron e Heine, ma anche Marx, Turgenev, Emily Dickinson e Spencer, formandosi una solidissima base storica e letteraria.
L’incontro decisivo
La persona che la indurrà alla speranza pacifista sarà il citato Henry Dunant e nel 1863 scriverà un romanzo, “Abbasso le armi”, tradotto in Italia solo nel 1897 per interessamento di Matilde Serao, unica letterata italiana che la apprezzò. Qui i ricordi del padre, rimasto ferito a Custoza nel 1849 e dell’amico Dunant, nonché le vicissitudini dei combattenti, vennero espresse in modo ingegnoso, spiritoso e sentimentale. Il suo messaggio eccepiva che le guerre erano figlie non di diritti calpestati ai popoli e per le loro necessità; ma nascessero per volontà privata dei detentori del Potere, il tutto frutto di intrighi politici atti a soddisfare le ambizioni di una classe dirigente o peggio di un singolo tiranno. Le tradizioni militariste di un Bismarck e i maneggi oscuri di un Napoleone terzo facevano da sottofondo al moto delle folle da questi ingannati e che con tragica incoscienza spingevano nazioni contro nazioni. Nel 1863, da giovanissima reporter, partecipò al primo Congresso internazionale dei pacifisti, dove la narrazioni di Dunant sulla carica di Balaklava – i famosi 600! – e la mattanza dei cavalieri dai pantaloni rossi fecero breccia nel suo animo, tale da inaugurare il suo stile letterario, fino a paragonare l’ansia del singolo a duellare – presente nei romanzi di Hugo e Dumas – al bisogno irrazionale di combattere popolo contro popolo, senza pensare ai danni collaterali sulle persone, sull’economia e sulla natura, iniziando così una travolgente rivolta letteraria nella nuova corrente positivista.
Attività d’istitutrice
Però se doveva vivere da contessa squattrinata – come notava l’amica Louise Otto- Peters – non le restava o la vita da mantenuta – la classica “traviata”, – ovvero la triste vita di insegnante e tutrice di qualche famiglia più ricca. Entrò allora nella dinastia von Suttner, un proprietario terriero, Barone dell’Impero austriaco, attraverso il modesto ruolo di istitutrice . A trent’anni si innamorò però del rampollo Arthur, di 7 anni più giovane. Fu un periodo travagliato, perché fu respinta dalla famiglia altolocata, che non ammetteva l’ideologia antimilitarista e che la giudicava poco più di una “cocotte”. Eppure negli anni dell’esilio, amata dal giovane ingegnere Arthur, fra il 1876 e il 1891, scrisse non solo il romanzo biografico “Highe life”, dove descriveva di famiglie ricche e di virtù da tenere nel cassetto pronte ad essere adoperate quando queste siano necessarie, esperienza personale che riprodusse in romanzo in occasione della vita borghese che aveva condotto nel Caucaso da istitutrice di una nobile famiglia russa. Tali virtù vennero messe in comune per la salvezza della nobile famiglia da cui dipendeva. Sottolineò così le degenerazioni del secolo, quando la società del denaro corrompeva i valori di eguaglianza e fratellanza, di bellezza e di pace, scegliendo come esempio quel principe “idiota” di Dostoevskij chiamato con la sua purezza a salvare il mondo.
Conoscenza con Nobel
La morte del suocero e del marito, la riportarono a Vienna e poi la conoscenza di Alfred Nobel nel 1876 costituirono il successivo salto di qualità, verso uno spiccato pacifismo militante che la porterà fuori dal mero ribellismo letterario. Non bastava più essere una “Madame Bovary”, né essere una rassegnata al suicidio come “Anna Karenina”; ma occorreva essere una “ribelle propositiva, una “Nora Helmer” emersa dalle pagine di Ibsen. E quale migliore scelta operativa se non aderire pienamente al programma dell’inglese Hodgson Pratt e del conterraneo Alfred Fried, del giovane Tolstoj? Aderì convinta alle idee di Alfred Nobel, che nel 1883 aveva affermato: “Il giorno in cui due armate si potranno distruggere reciprocamente nell’arco di un secondo, tutte le nazioni civili non potranno che arretrare spaventate e annullare ogni pretesa militare”. I romanzi “L’inventario di una anima“ (1883) e “La macchina del tempo”(1889), costituirono due trame di fantascienza sul modello di Verne dove Bertha insisteva nelle sue critiche ad una società troppo tecnica, nazionalista e votata all’armamento. Un capitalismo guerrafondaio che produceva ineluttabilmente la fine del mondo. E siamo nel 1892, quando intrecciò un notevole carteggio con Nobel e del quale a Parigi divenne una attivissima segretaria.
Impegno pacifista
Cominciò anche ad investire in cultura per la Pace. Conobbe anche il citato Alfred Hermann Fried e pubblicò sotto la sua direzione il mensile “Giù le armi”, con la quale partecipò a congressi periodici antimilitaristi a Berna, Londra e anche a Roma, in qualità della Austrian Peace Society. A leggere il diario del futuro sindaco di Roma, Ernesto Nathan, la vediamo essere “una donna di nobile e severo aspetto, elegante nel vestire… chiese la parola in francese e con uno stile vivo e colorito, in pieno salone dei convegni del Campidoglio, parlò dell’ideale assoluto della sua vita, cioè la fratellanza dei popoli, la guerra alla guerra, soprattutto la creazione di un tribunale internazionale di arbitrato”. E questo fu il punto che la distingueva dal vecchio amico Nobel, la cui tesi di una pace armata, magari preceduta da una guerra armata – profezia che si sarebbe però avverata proprio nei due conflitti mondiali del ‘900 – non la appagava. Bertha piuttosto si batté fino alla morte per il disarmo totale di tutte le Nazioni e nella Corte internazionale di arbitrato che risolvesse le tensioni internazionali, facendo ricorso al diritto e non più alla violenza. Battaglia che combatté col proprio giornale, letto in tutta Europa, da Vienna a Roma, a Mosca, nella Russia Zarista dell’amico Tolstoj, dell’italiano Moneta, dell’olandese van Eeden, senza contare l’entusiasmo che scatenò nel giovane Gandhi.
Ultimi anni
Fu anche esecutrice testamentaria di Nobel, facendo rispettare la destinazione del patrimonio alquanto cospicuo dello svedese alla istituzione del famoso Premio. Bertha negli ultimi anni della sua vita resse l’augusta carica di Presidente della Fondazione istituendo premi finalizzati alle scienze, all’economia e alla letteratura, ma anche alla Pace. Nel 1905 Lei stessa ne fu insignita, prima donna nel settore dei tanti successivi premiati, ivi compreso il nostro Ernesto Teodoro Moneta, già Presidente dell’Unione Lombarda per la Pace e fu sempre in prima linea nella società svizzera – svedese organizzativa del Premio. Purtroppo, o per fortuna, Bertha non vide l’apparente fallimento del suo pensiero con lo scoppio della 1° Guerra Mondiale. Come Mosè che morì non apirena vide la terra promessa, così Bertha non vide né la catastrofica guerra nè le terribili conseguenze. Ma aprì le porte ai giganti della Pace come Gandhi e Martin Luther King. Oggi ne abbiamo veramente bisogno.