Protagonisti Paolo Taviani, Dario Argento e non solo
A Berlino è tornato il grande cinema, e questa è una bellissima notizia. Il festival della capitale tedesca (svoltosi dal 10 l 20 febbraio), che per dimensioni e notorietà è inferiore solo a quelli di Cannes e Venezia, ha riaperto i battenti al pubblico e ai giornalisti dopo l’edizione online del 2021. Il Berlinale Palast e gli altri moderni cinema della zona di Potsdamer Platz sono tornati a vivere momenti di festa con le classiche passarelle rosse, i flash dei paparazzi e la sfilata degli attori. Certo, la necessità di mostrare ad ogni ingresso il certificato di avvenuta vaccinazione, di testarsi ogni giorno, di indossare sempre la mascherina e di tenere la distanza di sicurezza in sala (capienza ridotta al 50%) sono stati un ostacolo fastidioso. Ma in fondo si è trattato di un pegno pagato volentieri per il piacere di tornare in sala e godersi le tante première mondiali che sono state presentate nel cartellone di quest’anno.
L’orso d’oro è andato al film Alcarràs, diretto dalla regista catalana Carla Simón, Autrice di un film non memorabile, ma certamente ben costruito e con tutte le giuste caratteristiche per essere premiato da una giuria molto attenta al “politicamente corretto”. La pellicola parla della campagna catalana, delle sue caratteristiche socio-antropologiche, dei suoi problemi nella trasformazione forzata dell’economia rurale e della sua lotta per sopravvivere all’assalto della modernità. Al centro della storia si trova una famiglia che sta per essere improvvisamente privata della propria terra dove coltiva la frutta (pesche), da vendere tramite una cooperativa formata da altri piccoli contadini. Il podere in affitto sta per passare nelle mani del figlio del vecchio proprietario e il nuovo progetto prevede di abbandonare l’agricoltura in favore di impianti con pannelli solari per produrre energia elettrica.
Altri film avrebbero meritato di vincere il premio più ambito, per esempio quello tedesco di Andreas Dresen intitolato Rabyie Kurnaz vs George W. Bush, che racconta una vicenda realmente accaduta. Si tratta del caso di Murat Kurnaz, cittadino turco residente a Colonia, arrestato dagli americani e detenuto per cinque anni nel carcere di Guantanamo, senza avere mai ricevuto alcuna imputazione e soprattutto senza avare mai commesso nessun reato, se non la sfortuna di trovarsi in un luogo sbagliato (Karachi) al momento sbagliato. Protagonista del film è la madre del ragazzo arrestato, la signora Rabyie che arriva, con l’aiuto di un bravo avvocato, a denunciare gli Stati uniti di violazione dei diritti civili. La pellicola di Dresen è anche un atto di accusa contro il governo tedesco rosso-verde del cancelliere Gerhard Schröder e del ministro degli esteri Joschka Fischer, che non mosse un dito per liberare Kurnaz, nonostante fosse evidente a tutti l’ingiustizia di quell’incarceramento.
Leonora addio di Paolo Taviani
Ma veniamo al cinema italiano. E diciamo subito che se l’è cavata egregiamente, oltre le migliori aspettative, anche se non ha portato a casa nessun premio di prestigio. In concorso c’era un solo film, quello di Paolo Taviani intitolato Leonora addio, primo film girato dal novantunenne regista toscano senza il fratello Vittorio, scomparso nel 2018. La pellicola è stata molto applaudita e sebbene non sia entrato nel palmares degli orsi, tuttavia ha conseguito il premio Fipresci, assegnato dalla giuria della stampa cinematografica internazionale, con la seguente motivazione: «Guidato dallo spirito libero del genio di Pirandello, il regista mescola poesia, malinconia, ma anche ironia, fantasia e letizia per raccontarci i misteri della vita, della morte e della memoria».
Ed è proprio Pirandello il punto di riferimento della pellicola di Paolo Taviani. Già in passato i fratelli Taviani avevano realizzato due bellissimi film prendendo spunto da novelle pirandelliani: Kaos (1984) e Tu ridi (1998). Con Leonora addio si torna al grande scrittore e drammaturgo siciliano per raccontare la vicenda bizzarra e tormentata delle sue ceneri, trasportate da Roma a Girgenti. Il tutto in uno stile grottesco e umoristico che potremmo senz’altro definire “pirandelliano”. Ma andiamo con ordine: la pellicola rievoca, dunque, i tre diversi funerali che furono tributati a Pirandello: il primo subito dopo la sua morte nel 1936, a due anni dal Premio Nobel, con le ceneri conservate al cimitero Verano di Roma; un secondo funerale avvenne nel 1946, dopo un lungo ed estenuante viaggio nell’Italia traumatizzata dalla guerra, con le ceneri riportate in Sicilia nella natia Agrigento, in seguito ad una iniziativa promossa dagli studenti locali; infine, a distanza di altri 15 anni, il terzo funerale con la definitiva sepoltura nella pietre della sua campagna natale.
La vicenda delle ceneri è il pretesto per raccontare in bianco e nero e con uno stile asciutto circa quattro decenni del secolo scorso. Si tratta per certi aspetti di un viaggio metaforico nella storia e nella cultura del nostro paese, nel corso del quale si alternano momenti drammatici come l’orrore della guerra e notazioni sarcastiche o ironiche sul carattere degli italiani. Tra gli aspetti più interessanti e riusciti va segnalata l’idea di descrivere la fine del fascismo e la guerra non tramite materiali di repertorio documentario, bensì citando brani di alcuni capolavori del neorealismo italiano.
La prima parte dell’opera ha come protagonista l’attore Fabrizio Ferracane nei panni di un funzionario del Comune di Agrigento incaricato di riportare indietro l’urna con le ceneri di Pirandello attraversando l’Italia del sud. La seconda parte cambia repentinamente registro: ora siamo a New York, dove si narra un episodio di cronaca criminale riprendendo la novella di Pirandello Il chiodo, scritta pochi giorni prima di morire. Un ragazzino di nome Bastianeddu, costretto a emigrare dalla Sicilia, a New York uccide una ragazza colpendola con un grosso chiodo e rimane per sempre segnato da questo enigmatico omicidio. Dopo avere scontato la condanna, passa infatti il resto della sua intera esistenza a onorare la memoria della fanciulla uccisa meditando sulla sua tomba e chiedendosi come sarebbe stata la sua vita se lui non l’avesse spezzata. Il vero tema di Leona addio è, dunque, una meditazione sulla morte, sul mistero che essa costituisce in sé, e su ciò che indelebilmente lascia in coloro che sopravvivono.
A margine della proiezione stampa del suo film a Berlino, abbiamo raccolto alcune dichiarazioni di Paolo Taviani.
Come mai ha decido di girare questo film su Pirandello e le sue ceneri? Quali sono le origini e le motivazioni?
Questo film è stato pensato nel 1985, subito dopo avere finito Kaos. Vittorio ed io avevamo pensato già allora che la vicenda delle ceneri di Pirandello potesse costituire un episodio da inserire. Con Vittorio avevamo scritto un primo soggetto su Il chiodo. Leonora addio invece era legato a un racconto che ho tolto dal film mantenendo il titolo.
Come si raccorda la seconda parte del film, la riduzione cinematografica della novella Il chiodo, con la prima parte sulle ceneri di Pirandello?
Quella novella è stata scritta da Pirandello pochi giorni prima di morire, ed è un racconto sulla morte, diretto verso la morte. Mi è parso perfettamente adatto come finale del film.
Leonora addio è anche un film sulla storia italiana della guerra e del dopoguerra. Che incidenza ha questa dimensione nella costruzione del film?
Volevo raccontare anche quello che accadeva in quegli anni, il contesto storico, e potevo usare il repertorio di Cinecittà, ma ho preferito ricorrere a spezzoni di film del Neorealismo. La verità del cinema italiano di quel periodo è oltre il repertorio. La verità è nei film di De Sica, Visconti, Rossellini.
Come ha scelto gli attori?
Per il personaggio del funzionario incaricato di trasportare le ceneri di Pirandello non ho avuto dubbi nel puntare su Fabrizio Ferracane. Più complesso è stato lavorare con i bambini: siccome la produzione del film si è protratta a lungo per oltre due anni, a causa di interruzioni per covid, nel frattempo le bambine sono cresciute ed erano molto diverse da come erano all’inizio delle riprese.
Dieci anni fa lei e suo fratello Vittorio vinceste l’Orso d’oro a Berlino col film Cesare deve morire, recitato da carcerati di Rebibbia. Cosa ricorda di quell’esperienza?
Ricordo un’accoglienza inaspettata. Eravamo contenti per i detenuti che avevano lavorato con noi. Io e Vittorio avevamo fatto il cinema folgorati da Paisà di Rossellini. Quando lui ci aveva dato la Palma d’oro a Cannes, il cerchio si era chiuso. Un altro premio e dicemmo: basta concorrere con le nuove generazioni. Ma nel 2012 i detenuti ci chiesero la gara per avere più attenzione. La sera della premiazione il direttore di Rebibbia fece ascoltare loro la cerimonia alla radio. Quando fu annunciata la vittoria ci fu un urlo collettivo, da fuori si pensò a una rivolta.
Il film Leonora addio è dedicato a suo fratello Vittorio, scomparso quattro anni fa. Cosa significa per lei il ricordo di Vittorio?
Siamo partiti insieme, io avevo 16 anni e lui 18. Abbiamo affrontato tutto insieme: cinema, vita, emozioni. Nel film c’è la dedica che ho scritto a mano per lui. Per me è sempre stato al mio fianco.
Ha in mente di girare altri film prossimamente?
Certamente Leonora addio non è un film per chiudere la partita. Ho tanti progetti, il set è il mio elemento naturale.